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Una città nascosta dalla natura e investita dalla storia

Recensione di “La cronaca di Travnik” di Ivo Andric

 

Ivo Andric, La cronaca di Travnik, Mondadori
Ivo Andric, La cronaca di Travnik, Mondadori

Principio del XIX secolo. A Travnik, capitale della Bosnia ottomana, luogo di incontro di culture diverse, crocevia di differenti sensibilità religiose, “città rifugio” (ma anche “città prigione”) per le diverse etnie che la abitano, giunge, a rappresentare la Francia e il suo bellicoso imperatore, Napoleone Bonaparte, il console Jean Baptiste-Etienne Daville.


“Più vicino ai quaranta che ai trenta, alto, biondo, l’incedere sicuro e lo sguardo franco”, Daville, protagonista del romanzo La cronaca di Travnik, di Ivo Andric, è il simbolo dei tempi nuovi, dell’incessante incedere della storia che spezza l’illusione di eternità coltivata dalla chiusa società turca e dai suoi custodi, insofferenti verso ogni cambiamento. Volto e voce dell’Occidente, quest’uomo, catapultato in una realtà che non conosce e che gli riesce difficilissimo comprendere, è un frutto ancora acerbo; animato da sincera lealtà verso il proprio Paese e da limpido fervore bonapartista, Daville si affida all’intelligenza e alle risorse dello spirito per riuscire al meglio nel suo compito, ma nonostante i suoi nobili sforzi non trova il modo di colmare fino in fondo la distanza che lo separa da un mondo e da una società percepite come irrazionali, caotiche, insensate, primitive, quasi inumane. Durante i sette anni del suo mandato, che Andric narra con stile sobrio e trattenuta eleganza stilistica, mescolando tra loro, in un racconto di grande respiro e di eccezionale profondità, il macrocosmo delle trattative politiche e degli affari commerciali, l’esaustiva descrizione dei doveri d’etichetta richiesti negli incontri tra le autorità e il tormentato procedere delle vite private dei personaggi che animano la sua opera, Daville rimane ostaggio della sua prima, sfavorevole impressione, incatenato alle proprie paure e alle proprie diffidenze, dipinte dall’autore come “una linea nera e incandescente che soltanto l’oblio a poco a poco avrebbe lenito e cancellato”.

Per mezzo di Daville e del suo contrastato rapporto con un Oriente scoperto poco per volta eppure tenacemente vestito di pregiudizi, Andric, già autore del capolavoro Il ponte sulla Drina (di cui ho parlato in questo blog), scrive un nuovo, bellissimo capitolo della storia della Bosnia, cuore di una geografia politica e sociale tanto significativa quanto colpevolmente ignorata; celata agli sguardi (e agli interessi) stranieri dalla sua particolarissima posizione e da una natura selvaggia, rigogliosa, ostile – e in un certo senso, sembra suggerire Andric, consapevoledel proprio ruolo – Travnik è molto più di una città, è un destino che si compie, malgrado se stessa e al di là di se stessa.

Ed è con struggimento d’amante, lucidità di studioso e cristallino talento di scrittore che Andric la descrive  all’inizio del romanzo, rendendola immortale, proprio come la storia che la attraversa: “Nessuno mai, a Travnik, ha pensato che quella città fosse fatta per una vita normale e per eventi banali: nessuno, neanche l’ultimo balija del monte Vilenica. La convinzione assoluta di essere diversi dal resto del mondo, creati per un fine migliore e più alto e a esso predestinati, appartiene profondamente a ogni abitante di Travnik, così come il vento freddo che soffia dal monte Vlasic, l’acqua gelida dello Sumec, il grano “dolce” dei campi soleggiati intorno alla città: è una convinzione che non li abbandona mai, nemmeno durante il sonno, nella miseria, o in punto di morte […]. La città stessa, per la sua posizione e la distribuzione delle case, ha qualcosa di particolare, di originale e fiero. Travnik è una gola stretta e profonda che gli uomini, generazione dopo generazione, hanno costruito, trasformandola in un passaggio fortificato. Le genti che vi si fermavano hanno finito con lo stabilirvisi, adattando, nei secoli, loro stesse al luogo e il luogo a loro stesse. Le montagne precipitano lungo le pareti a picco della gola, incontrandosi ad angolo acuto nella valle, che riesce appena a contenere lo stretto fiume e la strada che lo fiancheggia. L’immagine è quella di un libro aperto a metà le cui pagine, da una parte e dall’altra, sono illustrate da giardini, vicoli, case, campi, cimiteri e moschee. Nessuno ha mai calcolato quante ore di sole la natura abbia carpito a Travnik, ma è certo che qui il sole sorge più tardi e tramonta prima che in qualunque altra cittadina o villaggio della Bosnia. Non lo negano neppure i suoi abitanti, anche se ci tengono a sottolineare che da nessun’altra parte il sole splende come splende sulla loro città, quando c’è”.

La cronaca di Travnik è un romanzo splendido e importante, un’opera colta, preziosa, una riflessione politica e storica di immenso valore e insieme un autentico gioiello letterario. E Ivo Andric uno scrittore da cui non si può prescindere.

Eccovi l’incipit. Buona lettura.

In fondo al mercato di Travnik, sotto la sorgente fresca e gorgogliante del fiume Sumec, è sempre esistito, da che mondo è mondo, il piccolo Caffè di Lutvo. Ormai neanche gli anziani ricordano Lutvo, il suo proprietario; da almeno cento anni egli riposa in uno dei cimiteri intorno alla città. Tuttavia si va sempre a “prendere un caffè da Lutvo”, e così ancora oggi il suo nome ricorre spesso nelle conversazioni, mentre quello di tanti sultani, visir e bey è da tempo sepolto nell’oblio. Nel giardino del caffè, proprio sotto la parete rocciosa del colle, vi è un angolino appartato e fresco, leggermente rialzato, dove cresce un vecchio tiglio. Intorno, tra pietre e zolle erbose, sono sistemate alcune panchine basse, di forma irregolare, sulle quali è un piacere sedersi e da cui è una fatica alzarsi. Consumate e imbarcate per gli anni e il lungo uso, sono ormai diventate tutt’uno con l’albero, la terra, le pietre.

Durante i mesi estivi, dall’inizio di maggio alla fine di ottobre, secondo una vecchia consuetudine, si incontrano qui, verso l’ora della preghiera pomeridiana, i bey di Travnik e le persone più influenti della città, le uniche ammesse alla loro compagnia. È quello il momento della giornata in cui nessuno oserebbe prendere il caffè seduto su quel rialzo, che viene chiamato “sofà”, una parola che nel linguaggio popolare di Travnik ha mantenuto attraverso le generazioni un consolidato significato sociale e politico: perché tutto ciò che viene detto, dibattuto e deciso sul “sofà”, è quasi altrettanto importante di quello che è deliberato dai notabili nel Divan dinanzi al visir.

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