Recensione di “L’Aleph” di Jorge Luis Borges
Proprio come i temi su cui più insistentemente si sofferma, la scrittura di Jorge Luis Borges sembra tessuta d’infinito. Immortale per intrinseca perfezione, la sua prosa sfugge a ogni possibile definizione, a qualsiasi categorizzazione;
così profondamente dotta da riuscire a disegnare mondi meravigliosi e complicatissimi lungo il confine sottile (e inaccessibile a chiunque altro) che separa il reale dall’immaginario, la verità dall’invenzione, la libertà creatrice del sogno dal severo rigore della sua interpretazione; così ricca, esuberante, magnifica, esplosiva da rivelarsi adatta (di più, ideale) per qualsiasi argomento – quasi che il contenuto fosse rivelato dalla forma, dalla scelta dello stile – e insieme ordinata, quieta perfino, diligente, regolata, la narrazione del grande scrittore argentino non sembra avere nulla a che fare con l’astratta esattezza della tecnica (pur essendo tecnicamente ineccepibile, quale che sia il genere letterario cui venga applicata) e nello stesso tempo è talmente ben strutturata, talmente forte, poggia su fondamenta così solide da non poter essere, per intero, frutto di talento, di genio, di improvvisazione priva di metodo.
Né vale (tertium non datur in questo caso, il mistero dello splendore di Borges è destinato a rimanere tale) ricorrere alla più ovvia delle conclusioni suggerita da quest’analisi e dichiarare che le pagine di Borges nascano dalla feconda unione tra predisposizione ed esercizio, perché se è del tutto evidente che le cose stiano anche in questo modo (non è forse la scrittura, qualsiasi tipo di scrittura, il risultato del matrimonio, più o meno riuscito, tra un dono personale e il lungo esercizio necessario al suo raffinamento?), lo è ben di più il fatto che i lavori di Borges, dalle poesie, ai racconti, ai saggi, non mostrino, in tal senso, alcun indizio.
In una parola, la scrittura di Jorge Luis Borges si sottrae a ogni indagine sulla propria genesi; come fosse una lega metallica di origine sconosciuta, o una creatura non appartenente a questo pianeta, questa prosa rigogliosa, lussureggiante, misteriosa e ipnotica non può essere “decifrata” (e cioè compresa, scientificamente spiegata) da strumento alcuno; il laboratorio letterario di quest’uomo che ai libri (e alla lettura più che alla scrittura, un particolare non di poco conto) ha dedicato per intero la propria vita, è quello sfumato ed emozionale di un alchimista, è l’antro di un mago che insegue il miraggio del moto perpetuo, che si nutre dell’illusione della pietra filosofale, che contempla l’eternità nello scorrere delle ore, nel costante rincorrersi dei giorni, e che nell’inseguire mondi al di là del mondo conosciuto trova il modo di raggiungerli, e di raccontare a tutti quel che vede. “Letteratura fantastica” è il termine con cui comunemente si definisce gran parte della produzione borgesiana; non si tratta, va da sé, di un errore, o di un fraintendimento, semplicemente di una verità parziale, o se si preferisce di un’esattezza monca.
Perché se è vero che è “fantastico”, e dunque per nulla ordinario, o scontato, o prevedibile, il modo in cui Borges affronta alcuni temi (il già citato problema del tempo, cui è correlata l’indagine su eternità e immortalità, non solo dell’anima, le questioni legate all’infinità e alla sua percezione, il nodo della verità e della sua espressione, o meglio della possibilità della sua espressione, che a sua volta si riallaccia alla possibilità dell’esistenza stessa della verità), e allo stesso modo è “fantastico”, per la capacità di coinvolgere, affascinare e regalare suggestioni il suo stile, è altrettanto vero che Borges il metafisico, Borges creatore delle Mille e una notte, è uno scrittore che appartiene al reale, e che con il reale non teme di confrontarsi; certo, al modo di un filosofo, non a quello di un politico, senza mai sacrificare la bellezza anche formale del proprio argomentare all’incisività di una conclusione, ma non per questo condannandosi alla sterilità.
Vetta, per ammissione dell’autore, della sua opera sono i libri di racconti Finzioni e L’Aleph; del primo ho già scritto in questo blog (il centesimo post, questo è il duecentesimo, un piccolo omaggio personale a uno degli scrittori che più ho amato e che maggiormente mi hanno influenzato), del secondo qui non tratterò che brevemente: questa volta, infatti, borgesianamente quanto me lo consentono le mie limitate capacità, ho cercato di parlare di un libro meraviglioso senza affrontarlo direttamente, raggiungendolo tramite rimandi e riflessioni. Ora, giunto alla trama del libro, credo che la cosa migliore da fare sia lasciare la parola a Borges (dall’introduzione dell’opera omnia, a cura di Domenico Porzio, Mondadori, collana I Meridiani, primo volume), che offre qualche coordinata di lettura per alcuni dei racconti che lo compongono. L’Aleph: “È la storia di un oggetto magico che serve solo a dare disgrazia e follia”, L’immortale: “È troppo scritto. Ora lo riscriverei più breve. Credo che sarebbe più chiaro il fatto che il protagonista è Omero che, dopo tanti secoli, ha dimenticato il greco e ha dimenticato l’Iliade. Ne ha letto la traduzione di Pope”. La ricerca di Averroè: “Fu ispirato da un passaggio di Renan nel suo libro su Averroè, dove dice che Averroè, uomo assai intelligente, definisce la commedia come satira e la tragedia come elogio. Giacché ignorava il teatro, si equivoca, perché gli manca un dato, non poteva sapere che esisteva quel genere”.
Eccovi l’inizio di uno dei racconti che mi ha colpito di più: La casa di Asterione. Buona lettura.
So che mi accusano di superbia, e forse di misantropia, o di pazzia. Tali accuse (che punirò al momento giusto) sono ridicole. È vero che non esco di casa, ma è anche vero che le porte (il cui numero è infinito) restano aperte giorno e notte agli uomini e agli animali. Entri chi vuole. Non troverà qui lussi donneschi né la splendida pompa dei palazzi, ma la quiete e la solitudine. E troverà una casa come non ce n’è altre sulla faccia della terra. (Mente chi afferma che in Egitto ce n’è una simile). Perfino i miei calunniatori ammettono che nella casa non c’è un solo mobile. Un’altra menzogna ridicola è che io, Asterione, sia un prigioniero. Dovrò ripetere che non c’è una porta chiusa, e aggiungere che non c’è una sola serratura? D’altronde, una volta al calare del sole percorsi le strade; e se prima di notte tornai, fu per il timore che mi infondevano i volti della folla, volti scoloriti e spianati, come una mano aperta. Il sole era già tramontato, ma il pianto accorato d’un bambino e le rozze preghiere del gregge dissero che mi avevano riconosciuto. La gente pregava, fuggiva, si prosternava; alcuni si arrampicavano sullo stilobate del tempio delle Fiaccole, altri ammucchiavano pietre. Qualcuno, credo, cercò rifugio nel mare.