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La filosofia lucidissima e incoerente di un romanziere

Recensione di “I fratelli Karamazov” di Fedor Dostoevskij

Fedor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Mondadori
Fedor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Mondadori

Simboli dell’uomo, della sua miseria come della sua grandezza; incarnazioni, o per dir meglio momenti, dell’eterno conflitto tra bene e male; maschere tragiche e grottesche delle forze sociali, intellettuali e spirituali che agitavano la Russia di fine XIX secolo, i componenti della famiglia Karamazov (il padre Fedor, i figli Dmitrij, Ivan e Aleksej e l’illegittimo Smerdjakov), protagonisti de I fratelli Karamazov, l’ultimo e più ambizioso romanzo di Dostoevskij, sono soprattutto la più limpida rappresentazione dell’anima dell’autore, lo specchio delle sue lacerazioni.


La loro voce è insieme quella insinuante del dubbio, quella carica di furore della ribellione e quella potente, sicura, quasi sovrumana dell’intimo convincimento, di un ideale di vita abbracciato per fede e con fede. Nel disegno dei caratteri di questi uomini perduti, sconfitti, annientati (con la sola eccezione di Aleksej) da se stessi prima che dall’oscurità del mondo, il grande scrittore russo realizza dei modelli, degli archetipi; è attraverso lo studio di Dmitrij e degli altri figli del volgare e dissoluto Fedor, infatti, che Dostoevskij riflette sull’umanità, sulle sue colpe e sulla sua pretesa innocenza.

È, la sua, una meditazione coraggiosa, sofferta, intrisa di dolore autentico, di disperazione, eppure sorretta da un’incrollabile fiducia; romanziere eccelso, egli lascia che siano la sua prosa densa, il suo realismo intenso, puntuale, e nello stesso tempo così lieve e delicato nei toni, così sfumato, così meravigliosamente equilibrato e felice da parer magico, e il nitore del suo stile a raccontare il proprio mondo interiore e a costruir per esso, a beneficio del pubblico, vicende e intrecci e contesti narrativi, ma non smette mai di interrogarsi (e di sollecitare il lettore) su quelli che ritiene essere i fondamenti dell’esistere: il rapporto tra l’uomo e il suo prossimo, quello ancor più radicale dell’uomo con Dio, e la scelta, ineludibile, della pietà, della comprensione, di un’etica cristiana, di un umanesimo religioso, unico rimedio all’orgoglio razionalista e al suo conseguente ateismo morale, al veleno dello sfrenato individualismo, al contagio dell’idolatria materialista.

Come scrive Fausto Malcovati nell’introduzione all’opera edita da Garzanti, “Con coraggio sorprendente per l’epoca in cui vive [Dostoevskij] rifiuta l’immagine convenzionale e astratta dell’uomo, il codice esterno di comportamento che la società a lui contemporanea accetta e impone, affronta i processi psichici più oscuri e contraddittori, dove l’uomo non può affidarsi ad alcuno dei suoi sostegni abituali, le dinamiche più sconcertanti tra individuo e società, intuizione e intelletto, libertà e legge, fede e ateismo, demonicità e santità, riaffermando la convergenza indispensabile tra mondo sociale, politico e mondo morale.

Le antinomie tra le quali si muovono i suoi romanzi sono le stesse che scuotono ancor oggi il nostro mondo: non perdono anzi acquistano attualità di generazione in generazione. È stato definito sismografo delle scosse telluriche della società borghese in crisi di transizione: quelle scosse telluriche non hanno perduto a tutt’oggi la loro forza dirompente.

Una cosa va comunque ricordata: Dostoevskij è un grande scrittore, non un filosofo, un pensatore. È un errore trarre dai suoi romanzi un sistema astratto di idee, isolarne il contenuto ideologico per dedurne costruzioni organiche: tale contenuto, privo della sua traduzione poetica, dà l’illusione della forma filosofica, ma è in realtà pieno di contraddizioni e di curiose incoerenze. La sua ricerca non va in direzione speculativa: il suo oggetto è la psiche umana imperfetta, l’anima ferita, ribelle, l’anima che anela all’armonia, che si dibatte tra il bene e il male, che cerca la sua realizzazione completa attraverso prove dolorose, angosciose lacerazioni”.

Diario di un conflitto, cronaca di un naufragio, I fratelli Karamazov è un romanzo d’enorme respiro, monumentale nella costruzione, di eccezionale radicalità nelle conclusioni, magistrale nello svolgimento (con al centro di tutto il brutale omicidio del padre, che come una maledizione lega le vite dei tre figli e le trascina verso un destino d’angoscia, morte ed espiazione). Nelle pagine di questo capolavoro ogni cosa è colta nella sua essenza, perfettamente rappresentata, resa indimenticabile: la povertà degli uomini e delle cose, la schiavitù degli appetiti, la presunzione della ragione, la colpa, intesa come piaga dell’anima, e la giustizia formale e opaca dei tribunali, di “Cesare” (che punisce gli atti senza mai essere in grado di comprenderne le motivazioni e per questo si riduce a mero meccanismo, a inumano ingranaggio sociale), il salvifico riparo della fede.

Lasciatevi incantare da questo splendido lavoro, dall’inesauribile ricchezza tematica e stilistica di Dostoevskij. Non ve ne pentirete, perché non esiste seduzione più pura, né più sincera, di questa.

Eccovi l’incipit del romanzo (la traduzione è di Alfredo Polledro). Buona lettura.

Aleksjej Fjodorovic Karamazov era il terzo figlio di un proprietario del nostro distretto, Fjodor Pavlovic Karamazov, tanto noto ai suoi tempi (e ricordato, del resto, fra noi ancor oggi) per la tragica e oscura sua fine, avvenuta giusto tredici anni fa e della quale parlerò a suo luogo. Di questo «proprietario» (come da noi lo si chiamava, sebbene in tutta la sua vita non avesse quasi mai abitato nella sua proprietà) dirò ora solamente che era un tipo strano, come se ne incontrano però abbastanza spesso, e cioè il tipo dell’uomo non solo basso e corrotto, ma anche, in pari tempo, scervellato; era tuttavia di quegli scervellati che san fare egregiamente i loro affarucci d’interesse, e, a quel che sembra, questi soltanto. Fjodor Pavlovic, per esempio, aveva cominciato quasi dal nulla, era un proprietario minuscolo, che correva a pranzare di qua e di là alla tavola altrui, spiava ogni occasione di fare il parassita, e nondimeno gli si trovarono al momento della morte ben centomila rubli in contanti. E al tempo stesso però aveva continuato per tutta la vita a essere uno dei più scriteriati stravaganti del nostro intero distretto. Ripeto ancora: questa non è stupidità – la maggior parte di questi stravaganti è abbastanza intelligente ed astuta, – ma proprio mancanza di criterio, e per giunta di un carattere particolare, nazionale.

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