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Un intreccio giallo, un tormentoso rovello filosofico

Recensione di “Il sospetto” di Friedrich Dürrenmatt

Friedrich Dürrenmatt, Il sospetto, Feltrinelli
Friedrich Dürrenmatt, Il sospetto, Feltrinelli

La verità, nei romanzi gialli di Friedrich Dürrenmatt, non è mai un traguardo, né l’espressione di un ordine razionale del mondo. Non è il filo d’Arianna dipanato in un labirinto bensì il labirinto stesso, l’intrico di vie oscure dentro il quale l’indagine si perde.


Agli enigmi che di volta in volta il protagonista dei suoi intrecci è chiamato a risolvere, infatti, lo scrittore svizzero dà la sostanza ruvida e disturbante di dilemmi morali, di cruciali interrogativi etici, di nodi tematici impossibili da eludere; egli veste con gli eleganti abiti letterari del mystery laceranti riflessioni sulla crudeltà dell’uomo, spietate analisi sul senso e la presenza del male, profondi, radicali ragionamenti sul rapporto tra il vero e il suo opposto, e le risposte che offre al lettore assumono spesso l’inquietante aspetto di ulteriori quesiti, hanno l’imprecisione sofferta di soluzioni abortite per via, e perfino quando conducono a un approdo certo lasciano in bocca il sapore amaro della delusione, o meglio della disillusione. La realtà, sembra dirci Dürrenmatt, non offre appigli alla speranza né rimedio al dolore, soltanto la possibilità di arginarlo, e sempre a carissimo prezzo. Non a caso gli eroi dei suoi romanzi affollano una galleria di sconfitti; sono vittime, anime e corpi gettati in pasto all’incomprensibile follia distruttiva del reale, alla quale, come commoventi, patetici Don Chisciotte, rifiutano di arrendersi. Nello splendido Il sospetto, pubblicato nel 1953, la violenza del mondo investe il commissario Hans Bärlach della polizia di Berna; ricoverato in ospedale, Bärlach un giorno sfoglia la rivista Life e si sofferma a osservare una foto; nell’immagine è ritratto il medico nazista Nehle, impegnato a operare, nel campo di concentramento di Stutthof, vicino Danzica, un “paziente” ebreo senza narcosi. Involontariamente sollecitato da un amico medico, che ravvisa nell’uomo ritratto in foto una notevole somiglianza con un suo collega dei tempi dell’università, il dottor Emmenberger (che tuttavia negli anni del secondo conflitto mondiale si trovava in Cile), ora chirurgo in una clinica di Zurigo, il poliziotto istintivamente si convince del fatto che tra queste due persone esiste un legame, qualcosa di terribile, d’innominabile, e comincia una personale inchiesta per portare alla luce ciò che per lunghi anni è rimasto nascosto. Scartata l’ipotesi che Nehle ed Emmenberger siano la stessa persona, ecco emergere un’altra e ben più angosciosa possibilità: che i due si siano scambiati i ruoli, con Emmenberger, nei panni di Nehle, a sterminare ebrei sul tavolo operatorio e Nehle, in Sudamerica, a pubblicare relazioni scientifiche a nome del “collega. A guerra finita, poi, un nuovo cambiamento: Emmenberger riprende il proprio nome e si installa a Zurigo, mentre Nehle viene costretto al suicidio. Per trovare prove a sostegno della propria teoria e smascherare un criminale nazista fino a quel momento rimasto impunito, Bärlach, gravemente malato, non ha che una strada da percorrere: farsi ricoverare nella clinica in cui lavora Emmenberger, mettere a repentaglio la propria vita per condurre in porto quella che sa essere la sua ultima indagine, sacrificare se stesso per compiere un atto di giustizia doveroso quanto impotente. E mentre passo dopo passo Bärlach si avvicina al suo obiettivo, Dürrenmatt svela la reale posta in gioco sottesa a questa caccia all’uomo: cercare di capire fino a che punto possa spingersi la malvagità dell’essere umano, mettere alla prova se stessi per capire se si possiede forza bastante per affrontare questa ferocia, per respingerla, ancora una volta, prima del suo prossimo assalto. Posto di fronte a crimini che sembra impossibile perfino concepire, il commissario riesce a guardare nell’abisso in cui sta per precipitare grazie a un gigantesco ebreo di nome Gulliver; l’uomo, che fu vittima di Nehle e miracolosamente sopravvisse al gelido morso dei suoi ferri (riuscendo perfino a fargli una foto, la stessa poi pubblicata da Life), spiega a Bärlach chi è davverol’uomo che si è messo in mente di catturare, e cosa significa veramente mettersi sulle sue tracce: “Nehle era terribile, ma era diverso dagli altri, commissario. I suoi esperimenti non si distinguevano per maggior crudeltà; anche con gli altri medici gli ebrei, legati ad arte, crepavano urlando sotto le lame dei bisturi, per lo shock prodotto dai dolori e non per l’inesperienza dei medici. Il suo demonismo consisteva in questo: egli eseguiva le sue operazioni con il consenso delle vittime. Per quanto ciò possa essere incredibile, Nehle operava soltanto quegli ebrei che si presentavano spontaneamente, che sapevano esattamente ciò che li aspettava, che addirittura – perché Nehle poneva condizioni precise – dovevano prima assistere ad altre operazioni, per rendersi conto di persona degli orrori della tortura prima di dare il loro consenso e sottoporsi alla stessa ferocia”. E al poliziotto che chiede, stupito e colmo di disgusto e di rabbia, come sia possibile che un uomo scelga il proprio martirio, Gulliver replica con lucidità devastante: “La speranza, cristiano […]. Fede, speranza, amore, questi tre elementi, com’è detto così bene nella lettera ai Corinti […]. L’amore e la fede, a Stutthof, se ne andarono al diavolo, ma la speranza rimase, e con la speranza si andava al diavolo. La speranza, la speranza! Nehle ne aveva piene le tasche, ne offriva a chiunque, ed erano molti quelli che venivano a chiederne. È incredibile, commissario, eppure furono centinaia quelli che si fecero operare da Nehle senza narcosi, dopo che tremanti e pallidi come cadaveri avevano visto crepare colui che li aveva preceduti sullo squartatoio, che potevano ancora dire di no. Lo facevano con la speranza della libertà che Nehle aveva loro promesso”. Ecco dunque quel che Bärlach, il degente Bärlach, deve contrastare, un uomo che ha contribuito a creare un mondo d’incubo, una realtà allucinante e perversa nella quale l’ombra della salvezza, illusoria moneta di scambio, conduce la più nobile delle creature, colui che è stato creato a somiglianza di Dio, alla volontaria amputazione del proprio spirito.

 Dürrenmatt, che ha il merito di aver portato alla perfezione il genere letterario del giallo, narra meravigliosamente, e con stile a un tempo pulito ed eccezionalmente incisivo mette in scena un indimenticabile duello tra preda e cacciatore che ha il respiro possente e tormentoso di un rovello filosofico. Il sospetto è un romanzo magnifico e scomodo, un capolavoro che lascia il segno. Un segno indelebile, come una cicatrice.

Eccovi l’incipit (la traduzione è di Enrico Filippini). Buona lettura.

In quello stesso novembre del 1948, Bärlach entrò all’ospedale di Salem, dalle finestre del quale si vede la vecchia Berna e il suo Rathaus. Un attacco cardiaco fece rimandare di due settimane l’urgente intervento chirurgico. L’operazione si svolse felicemente, ma confermò la presenza di quella inesorabile malattia che si era temuta. La situazione del commissario era grave. Per due volte la sua morte era sembrata imminente, ma poi erano tornate le speranze; infine, poco prima di Natale, il commissario cominciò a migliorare. Durante le feste dormì quasi ininterrottamente, ma il lunedì ventisette si riprese e si mostrò in forma. Passò tutta la giornata a guardare vecchi numeri di “Life” del quarantacinque. “Belve, erano, Samuel”, disse al dott. Hungertobel quando questi verso sera entrò nella camera in penombra per la visita quotidiano. “Belve,” e gli porse la rivista. “Tu sei medico e sei in grado di rendertene conto. Guarda per esempio questa fotografia scattata nel campo di concentramento di Stutthof! Il chirurgo sta operando allo stomaco un prigioniero, senza narcosi”. Già, i nazisti avevano fatto cose del genere, disse il medico guardando la fotografia; poi, mentre stava già per riporre la rivista, impallidì.

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