Recensione di “Novelle esemplari” di Miguel de Cervantes
L’esempio, la morale, l’insegnamento, la lezione da trarre e conservare. È il più alto principio della letteratura l’edificazione, la sua ragione d’essere e in pari tempo il suo più grande tradimento.
Lo sa bene (e altrettanto bene lo spiega al proprio pubblico) Miguel de Cervantes, che con la “sacralità” della pagina scritta ha magistralmente giocato nella sua opera più nota, l’immortale Don Chisciotte, scherzo geniale, burla irresistibilmente irriverente dei canoni etici ed estetici cristallizzati dall’epica cavalleresca, tronfio raccontar di sterili eroismi, languidi amori cortesi e patetiche riverenze all’ordine costituito (a rappresentare il quale sfilano, in abiti da cerimonia, e in rigoroso ordine d’importanza, il nobile di turno, il sovrano del regno e Dio).
Ma non è soltanto al folle peregrinare di Alonso Chisciano che il grande scrittore spagnolo ha donato il suo immenso talento; nel 1613, infatti, e cioè proprio tra la comparsa della prima e della seconda parte del suo capolavoro, egli dà alle stampe le Novelle esemplari, che fin dal titolo rinnovano l’esplosività della sua ironia e confermano l’intenzione di ribaltare i valori costituiti su cui si regge la società del suo tempo.
Una società peraltro dispersa, confusa, spezzata, che Francesco Saba Sardi nell’introduzione al volume edito da Fabbri così descrive: “Un paese vastissimo e potenzialmente ricco, ma incapace di nutrire i suoi pur non molti abitanti; pianure gialle, a perdita d’occhio; boschi privi di sentieri, tali quali all’epoca della conquista romana; greggi, castelli in rovina, conventi, miserabili villaggi e, nelle città, folle assai spesso cenciose, cupe, feroci e tuttavia prone ai loro padroni temporali ed ecclesiastici. E un continuo spostamento da un luogo all’altro, come d’un popolo di formiche preda a una immedicabile inquietudine: alla ricerca d’un Eden, di un ideale, di terre da conquistare e devastare, di oro, oro, oro. Può sembrare un quadro di maniera, e non lo è: risponde esattamente alle condizioni della Spagna quale si presentava agli inizi del XVII secolo […]. La Invincibile Armata giaceva in fondo al mare; Filippo II, succeduto a Carlo V, il ‘fulmine di guerra’ di cui parla in queste pagine Cervantes, aveva preteso di imporre ai sudditi, a guisa di infallibile panacea, gli ideali austeri e persecutori della Controriforma; l’Inquisizione lavorava di ruota e rogo; la censura era implacabile; braccio secolare e clero erano chiamati a cooperare per fare, della Spagna, la Città di Dio. Pezzenti, lebbrosi, reduci, mutilati, ladri, donne di facili costumi, profittatori, gente senz’arte né parte; città e campi ne pullulavano […]. Quest’era dunque il clima sociale e morale di quello che, per la letteratura spagnola, su il Siglo de Oro, il ‘secolo d’oro’”.
In questa teoria di rovine imbellettata di dignità posticcia Cervantes offre ai lettori la sua idea di esemplarità narrando con prosa ricca, pungente e divertita, con stile raffinatissimo e pronta arguzia, con un gusto spiccato per la descrizione d’ambiente e vivo entusiasmo per lo splendore della natura (davvero magnifici alcuni passaggi dedicati all’Italia), di zingari e pazzi, servi e straccioni e studenti squattrinati, di popolani quasi del tutto privi di mezzi eppure ebbri di vita, saggi, in alcuni casi soltanto furbi, astuti, pronti alla truffa ma mai al delitto.
I personaggi di Cervantes, protagonisti di vicende spesso grottesche, di impronta boccacesca, nelle quali è in agguato l’equivoco e dove gli scambi di persona sembrano non finire mai, rifiutano l’ossequio formale alla legge, all’ordine imposto da chi detiene il potere, ma nello stesso tempo dimostrano di avere un proprio limpido codice morale, e di essere pronti a difenderlo. E Cervantes ama i suoi eroi di un amore assoluto; dona loro bellezza, carattere, spirito di sacrificio, ma soprattutto la capacità (e la voglia, anzi l’insopprimibile desiderio) di sorprendere, stupire, spiazzare, di giocare da pari a pari con le avversità, con il fato, e alla fine di prevalere, perché l’esempio è più forte, più incisivo se la storia ha un lieto fine e poi perché i nuovi valori (su tutti, un sano individualismo, cifra caratterizzante dell’uomo moderno) sono destinati a vincere, a imporsi dinanzi al disfascimento dei vecchi, che tutti fanno mostra di rispettare ma che in realtà hanno da tempo dimenticato, o peggio tradito.
Le Novelle esemplari sono una magnifica lettura; ricche d’invenzioni e linguisticamente scintillanti, hanno il caldo sapore di una chiacchierata tra amici, la forza d’attrazione di una confessione e la liberatoria leggerezza di un gioco.
Eccovi l’inizio della prima, intitolata La zingarella (la traduzione è di Antonio Gasparetti). Buona lettura.
Si direbbe che i gitani e le gitane siano venuti al mondo solo per fare i ladri; nascono da genitori ladri, con ladri crescono, studiano da ladri, e finiscono per esser ladri che rubano a man salva e in ogni circostanza, e la voglia di sgraffignare e lo sgraffignare sono in essi quasi accidenti congeniali, che non si perdono se non con la morte. Dunque, una di questa stirpe, vecchia gitana, degna di laurea nella scienza di Caco, allevò come nipote propria una ragazza, cui mise nome Preciosa e alla quale insegnò tutte le gitanerie, l’arte della truffa e l’industria del furto. Riuscì la detta Preciosa la più abile ballerina della gitaneria tutta, e la più bella e intelligente che fosse da incontrare, non solo tra i gitani, ma tra quante belle e assennate potrebbe esaltare la fama. Né il sole, né il vento, né tutte le inclemenze atmosferiche, cui più di qualsiasi altra stirpe sono esposti i gitani, valsero a inaridirne il volto o a irruvidirne le mani: e, quel che più conta, la zotica educazione che le veniva impartita non faceva che scoprire in essa le tracce di una nascita più nobile della gitana, e infatti era quanto mai cortese e assai arguta. Non che non fosse piuttosto disinvolta, non però tanto da rivelar disonestà checchessia: anzi, benché vivace, era così consumata che in sua presenza nessuna gitana, vecchia o giovane, osava cantar canzoni lascive o dire scurrilità. Alla fine, la vecchia si rese conto che quella sua presunta nipote era un tesoro, e l’aquila vecchia decise allora di educare l’aquilotto al volo e di insegnargli a vivere dei propri artigli.
Gran genio Cervantes, precursore di un genere letterario cavalleresco ormai in piena crisi esistenziale. si entra e si esce dal sogno con fantasia e rigore.
Audace nel linguaggio anche in questo racconto . Opera antica e moderna insieme. Arricchita da un vocabolario prezioso e ironico allo stesso tempo.
Concordo. Grazie del tuo commento.
Un caro saluto
Paolo