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Volti deformi dietro scintillanti maschere comiche

Recensione di “Il Tartufo” di Molière

molière, Il tartufo, Garzanti
Molière, Il Tartufo, Garzanti

La scrittura intesa come occasione di verità; la sua interpretazione, preferibilmente recitata sul palcoscenico di un teatro, considerata quale strumento principe della sua diffusione; infine l’artista, che nella molteplice veste di regista, attore e autore si assume il compito di leggere il reale, di comprenderlo e svelarlo, raccontandolo con voce forte e decisa.


Declinandolo, certo, secondo quanto suggeriscono l’estro e il talento, nei toni spumeggianti della commedia o in quelli severi del dramma, abbigliandolo con i colori vivaci della farsa, incendiando la prosa di perfidia e cinismo, indugiando con compiaciuta precisione nei vizi e nei difetti dei suoi caratteri, ma mantenendo sempre un’essenziale lucidità, una cristallina chiarezza di visione. Si fonda interamente su questa “equazione dello spirito” il senso dell’opera di Molière (al secolo Jean-Baptiste Poquelin), uno dei più grandi commediografi della storia.

Rampollo di una facoltosa famiglia di mercanti, educato agli studi classici, affascinato dalla radicalità del pensiero filosofico di François de La Mothe le Vayer (uno degli esponenti di maggior rilievo di quella corrente di pensiero scettico-razional-naturalista nota come libertinismo erudito, che, sviluppatasi quasi in clandestinità nel corso del Grand Siècle, trovò completa sistematizzazione nel Settecento illuminista), Molière dedicò tutte le proprie forze e il proprio inesauribile entusiasmo alla bellezza, alla squisita armonia della forma, alla leggerezza – che venò di geniale impertinenza – del gioco letterario; su questa raffinata trama (che sembra quasi un contrappunto alla scelta dei temi, caratterizzati da un preciso indirizzo etico), egli narra di stupidità e ipocrisie, di malvagità ed errori, di miserie e vendette, disegnando ritratti d’uomini che nascondono volti deformi dietro le loro scintillanti maschere comiche.

Uomini come il falso devoto Tartufo, protagonista dell’omonima commedia (uno dei suoi lavori più riusciti, celebri e contrastati; rappresentato per la prima volta nel 1664, suscitò reazioni rabbiose, venne proibito e  poté essere messo in scena con regolarità solo nel 1669 per intervento del re di Francia), modello immortale del gaglioffo privo di scrupoli che cela la propria malvagità e le proprie brame (denaro e amore carnale) ostentando una santità di facciata così perfetta da parer sovrumana.

Il mascalzone Tartufo, che irretisce l’ottuso capofamiglia Orgone facendo mostra di una pietà e di uno zelo religioso semplicemente impossibili da provare, è simbolo di una società malata e corrotta, costruita sulla menzogna, spogliata di ogni innocenza e destinata al disfacimento; allo stesso modo e per converso è un esempio anche Orgone, la cui stupidità, a livello sociale, altro non rappresenta se non l’amara presa d’atto di quel che era la realtà delle cose al tempo del grande francese.

Ed è nei toni magistralmente spassosi dell’agiografia che il burattino-Orgone descrive il suo protetto, l’uomo che ha deciso di ospitare in casa e dal quale viene manovrato; la sua resa alla falsità di Tartufo è insieme involontaria e completa; è la resa di un singolo (del credulone, dello stupido, personaggio indispensabile alla commedia) alle macchinazioni di un altro individuo, ed è la resa di un intero corpo sociale al superiore interesse di pochi, di coloro che senza sosta tramano a danno di tutti gli altri. “Ogni giorno”, fa dire Molière allo sciocco Orgone, “col suo sguardo mite, veniva in chiesa ad inginocchiarsi proprio davanti a me. Riusciva a far convergere su di sé tutti gli sguardi dei fedeli per l’ardore con cui innalzava al cielo la sua preghiera, con gran sospiri, grandi gesti, baciando umilmente il pavimento a ogni istante. E quando uscivo mi precedeva in fretta per mettersi vicino alla porta e offrirmi l’acqua santa. Informato dal suo servo, che l’imitava in tutto, della sua identità e del suo stato d’indigenza, gli facevo dei regalini; ma lui, con modestia, me ne voleva sempre rendere una parte. Diceva: «È troppo! Mi date il doppio di ciò di cui ho bisogno. Non merito di suscitare in voi sentimenti di pietà». E quando rifiutavo di riprendere ciò che gli avevo dato, andava a darlo ai poveri, sotto ai miei occhi. Infine il cielo volle che gli offrissi ospitalità, e da quel momento tutto sembra andar meglio in casa mia. Vedo che di nulla è contento e che si interessa persino della condotta di mia moglie, naturalmente per salvare il mio onore; mi avverte quando le fanno gli occhi dolci, e se ne mostra sei volte più geloso di me. Ma voi non potete credere fino a che punto arrivi il suo zelo, per un nonnulla si crede in colpa, si scandalizza per una sciocchezza. L’altro giorno è arrivato al punto di venire da me ad accusarsi di aver acchiappato una pulce, mentre pregava, e di averla ammazzata con troppa collera”.

Importa relativamente che Molière, dopo aver presentato Tartufo in tutta la sua abiezione finisca con il punirlo, con il far prevalere la giustizia (impersonata, per ovvie ragioni di convenienza, dal sovrano di Francia). Il lieto fine, infatti, pur in linea con l’atmosfera ilare che pervade l’intero lavoro, non intacca la sua intelligenza critica né, cosa ben più importante, stempera la fermezza della sua denuncia.

Splendidamente scritta, arguta, divertente, per larghi tratti irresistibile, Il Tartufo è una commedia che non ci si stanca mai di leggere (come pure di vedere). È un testo che non invecchia e una lezione che non si dimentica.

Eccovi, in luogo dell’incipit, la prefazione all’opera scritta dallo stesso Molière nel 1667. Buona lettura.

Ecco una commedia per la quale si è fatto molto rumore e che è stata a lungo perseguitata; le persone che essa satireggia hanno chiaramente dimostrato di essere più potenti in Francia di tutte quelle che ho preso in giro finora. I ‘marchesini’, le ‘preziose’, i ‘cornuti’ e i medici hanno sopportato tranquillamente ch’io li abbia messi in scena, e hanno fatto finta di divertirsi con tutti gli altri delle caricature che ne ho fatto. Ma gli ipocriti non hanno sopportato scherzi; si sono subito arrabbiati ed hanno trovato strano che avessi avuto l’ardire d’imitare sulla scena le loro smorfie, e di screditare un mestiere esercitato da tante persone della buona società. È un delitto che non mi perdoneranno: tutti hanno sfoderato le loro armi contro la mia commedia con uno spaventoso accanimento. Si sono ben guardati dall’attaccarne il lato che li aveva feriti: sono troppo buoni politici per fare ciò, e troppo bene si sanno comportare per mettere a nudo ciò che hanno in fondo all’animo. Secondo le loro lodevoli abitudini, hanno coperto i loro veri interessi con la causa di Dio; e Il Tartufo, per loro, è un’opera che offende la religione. È abominevole dal principio alla fine, e tutto ciò che contiene merita il rogo. Ogni sua sillaba è empia, i gesti stessi degli attori sono criminali; e la minima occhiata, il più piccolo cenno del capo, il minimo passo a destra o a sinistra nascondono dei misteri che essi riescono a spiegare sempre contro di me.

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