Recensione di “Il bassotto e la regina” di Melania G. Mazzucco
Nell’ordinato mondo delle favole, dove esiste un equilibrio sostanziale e il bene e la virtù hanno il proprio premio e il male la necessaria punizione, è come se tutto quanto tornasse a respirare, le persone come le cose. È come se davvero esistesse un senso, se le logiche spesso folli (e ancor più frequentemente disumane) che ci imprigionano, venissero considerate per quel che sono davvero e messe da parte, in qualche modo sconfitte dalla semplicità, irriducibile e insuperabile, dell’esistere.
Così, nelle favole – a torto considerate racconti a misura di fanciullo, storielle ricche solo d’ingenuità e buoni sentimenti – accade che si possa essere quasi felici anche in povertà, che non ci si debba rimproverare di avere una laurea in filosofia, malgrado oggi a nessuno interessi la filosofia e sia quasi impossibile trovare lavoro fidando solo su quel che hanno detto e scritto persone morte ormai da secoli, e che la lealtà, il coraggio, l’amore degli animali siano identici ai sentimenti provati dai migliori tra gli uomini, e alla fine, malgrado ostacoli e difficoltà, trionfino.
Di tutto questo narra con commovente dolcezza Melania G. Mazzucco in Il bassotto e la Regina, apologo lieve e struggente che guarda la realtà d’oggi attraverso una particolare e felicissima chiave interpretativa: quella dell’innocenza fiabesca. La scrittrice italiana ambienta ai giorni nostri una vicenda bellissima e oscura, che prende le mosse dal crudele commercio illegale degli animali. In una città qualsiasi (che può essere qualsiasi città), un giovane rabbioso, infelice, cresciuto in mezzo agli stenti e capace di pensare soltanto al proprio personale profitto, gestisce un traffico assai redditizio: importa di contrabbando rari esemplari di animali – serpenti a sonagli, scimmie, iguane, perfino tartarughe leopardo – e li rivende a uomini privi di scrupoli quanto lui. Nasconde le bestie nella cantina di un palazzo finché non trova, per ciascun animale, il giusto acquirente; poi ricomincia. Una notte in quella cantina finisce anche Regina, splendida femmina di levriero afghano, e di lei si innamora perdutamente il bassotto Platone, innocuo cane da salotto di proprietà di Yuri, squattrinato studente di filosofia. Platone, “muso a punta, zampe corte e coda a pennello, folte sopracciglia sugli occhi neri e un mantello di pelo duro a spazzolargli la schiena”, non è che un piccolo e tenero animale; è abituato al tranquillo affetto del suo padrone, alla languida comodità di casa, e non immagina che al mondo possa esistere gente tanto malvagia da imprigionare degli animali e costringerli, a rischio della vita, a viaggiare chiusi un scatole di cartone da un capo all’altro del mondo solo per poterne fare merce di scambio, eppure, con immenso dolore, scopre che a Regina, così come a tutti gli altri animali segregati nello scantinato, è successo proprio questo. Sconvolto, ma soprattutto conquistato dalla bellezza senza pari di Regina, egli tenta in modo di aiutarla; dapprima cerca di alleviare la sua condizione raccontandole storie e cantandole canzoni, specie la sua preferita, la Ballata di Laika, il cane astronauta che diventò una stella, poi, quando capisce che Regina sta per essere venduta e si rende conto che non la vedrà più, in un disperato gesto di coraggio e d’amore, si lancia dal balcone di casa.
Molte altre cose accadono da quel momento – nella vita di Platone come in quella della Regina e poi di Yuri, del giovane cattivo, della tartaruga leopardo, troppo vecchia per avere dei compratori, troppo intelligente per non sapere fino a che punto può spingersi la cattiveria degli uomini e nello stesso tempo troppo saggia per non comprendere che la morte non è che un passaggio, un ponte da attraversare per raggiungere altri luoghi – e l’autrice, che lascia il racconto a un pappagallo in grado di parlare tutte le lingue del mondo, le descrive con animata passione e vivo coinvolgimento, senza ritrarsi di fronte alla violenza e all’abiezione (perché questa è una favola, certo, ma non una finzione), ma anche senza mai abbandonare quell’attrazione etica verso il dover essere che caratterizza le storie “a lieto fine”.
Il bassotto e la Regina è un omaggio limpido e nostalgico a una dimenticata purezza di sentimenti; è una storia garbata e autentica, che tocca tanto i registri sussurrati della fiaba quanto quelli disturbanti del dramma; la grande capacità di narrare della Mazzucco e il suo fascinoso equilibrio espressivo rendono questo libro (un centinaio di pagine di eccezionale intensità) adatto a tutti i lettori; ai giovani e ai giovanissimi, che nell’immediatezza descrittiva del pappagallo ritrovano intatta la palpitante l’essenzialità della loro incompleta esperienza del mondo, come a coloro che sono già maturi e che dell’animo umana conoscono bene contraddizioni, abissi e magnificenze. Meritano una citazione le belle illustrazioni di Alessandro Sanna (a partire da quella di copertina), che contribuiscono a rendere questa storia ancor più preziosa.
P.S. Permettetemi di dedicare queste righe a mia figlia Virginia, di cinque anni, che a questo libro si è appassionata, e alla mia compagna Francesca, che ha scelto Il bassotto e la Regina espressamente per lei e sera dopo sera, proprio come si fa con le favole, glielo ha letto, raccontato, interpretato. Rendendo vera ogni parola, ogni pagina.
Vi voglio raccontare la storia di un mio amico. Aveva il muso a punta, le zampe corte e la coda a pennello. Folte sopracciglia sugli occhi neri e un mantello di pelo duro a foderargli la schiena. Era sempre spettinato, come se avesse preso un colpo di vento. Aveva la barba, anche se era molto giovane. Usciva di casa tre volte al giorno: al mattino presto, nel tardo pomeriggio e la sera prima di andare a dormire. Non sapeva che si può vivere in un altro modo. Era un cane da salotto. Quelli come lui sono nati per fare compagnia agli uomini, come i peluche ai bambini. Hanno paura di restare soli, del buio e della notte. Tutto il resto del tempo lo passava scorrazzando per l’appartamento, seduto dietro la porta ad aspettare che il suo padrone rientrasse, oppure affacciato alla ringhiera del balcone, a guardare giù in strada. Guardava il semaforo, la vetrina del ristorante cinese, il chiosco dei giornali, i piccioni che becchettavano le briciole sul marciapiede e il gatto del macellaio, che presidiava la soglia del negozio.