Recensione di “Memorie di Adriano” di Marguerite Yourcenar
È la lingua limpida e nel medesimo tempo quasi schiva della confessione, l’intatto alfabeto di un’anima che offre se stessa ma che in segreto teme la propria nudità imperfetta; è la prosa quieta e trattenuta di un’epistola cui è affidato il compito (quasi impossibile) di render manifesti il ritratto interiore di un uomo e il suo destino nell’identico modo in cui si riepiloga un qualsiasi accadimento, facendo la massima attenzione a mantenere tra sé e il fatto la giusta distanza, la necessaria neutralità;
è la profondità di una saggezza antica e autentica, coltivata con amore e divenuta abito, costume, e la chiarezza di visione di un’esperienza concreta del mondo; è il dovere della rettitudine di colui che è chiamato a servire con coscienza il pubblico bene e la consapevole scelta del singolo in favore della virtù, sola testimonianza di un’esistenza degna di essere vissuta. È tutto questo Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar, opera composita, enigmatica e affascinante, che del romanzo ha l’ampio respiro e l’esemplare raffinatezza stilistica, del diario personale l’intensità, del racconto epistolare l’architettura, della riflessione filosofica il contenuto e dell’elegia il pacato splendore. Pubblicato nel 1951, le Memorie di Adriano racconta la vita dell’imperatore romano, che regnò nel II secolo d.C., dal 117 fino al 138 (anno della sua morte); a parlare di sé e del proprio ruolo è lo stesso Adriano, che in età ormai matura, sentendo approssimarsi la fine, decide di scrivere una lunga lettera al suo giovanissimo pupillo, e futuro imperatore, Marco Aurelio. Scrittrice di immenso talento, Marguerite Yourcenar è molto attenta, nella sua ricostruzione, all’esattezza del contesto storico, tuttavia questo lavoro di precisione scientifica, pur importante ed eseguito con rigore, resta estrinseco rispetto al significato ultimo del lavoro; quel che maggiormente interessa all’autrice, infatti, non è dar vita a un testo che possa leggersi anche come saggio, ma restituire il cuore di un uomo; tornare indietro di secoli rispetto al proprio tempo per ritrovare qualcosa che possa considerarsi un modello, un nucleo di verità spirituali capace di resistere ai secoli e di ripresentarsi, uguale a se stesso, a chiunque intenda farlo proprio.
Mio caro Marco,sono andato stamattina dal mio medico, Ermogene, recentemente rientrato in Villa da un lungo viaggio in Asia. Bisognava che mi visitasse digiuno ed eravamo d’accordo per incontrarci di primo mattino. Ho deposto mantello e tunica; mi sono adagiato sul letto. Ti risparmio particolari che sarebbero altrettanto sgradevoli per te quanto lo sono per me, e la descrizione del corpo d’un uomo che si inoltra negli anni ed è vicino a morire di un’idropisia al cuore. Diciamo solo che ho tossito, respirato, trattenuto il fiato, secondo le indicazioni di Ermogene, allarmato suo malgrado per la rapidità dei progressi del male, pronto ad attribuirne la colpa al giovane Giolla, che m’ha curato in sua assenza. È difficile rimanere imperatore in presenza d’un medico; difficile anche conservare la propria essenza umana; l’occhio del medico non vede in me che un aggregato di umori, povero amalgama di linfa e sangue. E per la prima volta, stamane, m’è venuto in mente che il mio corpo, compagno fedele, amico sicuro e a me noto più dell’anima, è solo un mostro subdolo che finirà per divorare il padrone.