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La storia d’amore di un uomo per un uomo

Recensione di “La ballata del carcere di Reading” di Oscar Wilde

 

Oscar Wilde, La ballata del carcere di Reading, Rizzoli
Oscar Wilde, La ballata del carcere di Reading, Rizzoli

La storia, celebre, racconta di una condanna pronunciata più per paura che per vendetta, di un’anima amputata, sacrificata sull’altare di una pubblica moralità satura d’ipocrisia e minata da falsità e menzogne, della viltà intellettuale ed etica di una società incapace di comprensione, di tolleranza. La storia, nota a tutti, narra dei due anni di carcere inflitti a Oscar Wilde e scontati nel carcere di Reading, del patetico trionfo del suo avversario e accusatore, il marchese di Queensberry, dell’inferno vissuto dal grande scrittore irlandese, della sua esistenza, interamente dedicata all’arte e alla bellezza, spezzata alla radice.


Ma la storia, questa storia, non si conclude con un naufragio, con una sconfitta: è il 1898, Wilde ha scontato la pena e dà alle stampe il frutto, splendido e sconvolgente, della sua esperienza, la Ballata del carcere. “Un patriota imprigionato perché amava il suo paese continua ad amare il suo paese; un poeta imprigionato perché amava i ragazzi continua ad amare i ragazzi”, scrive Franco Buffoni, citando una dichiarazione dell’autore, nell’introduzione al volume edito da Mondadori, e così prosegue: “con queste parole, all’uscita dal carcere, Wilde riuscì a sintetizzare non soltanto l’ineluttabile inutilità del processo e della pena personalmente subiti, ma anche il senso ultimo del proprio capolavoro poetico, La ballata del carcere di Reading. Perché solo apparentemente essa narra la storia dell’impiccagione di un giovane detenuto colpevole di omicidio e delle ‘corali’ reazioni dei suoi compagni di pena. Più propriamente, la Ballata narra la storia d’amore di un uomo per un uomo”.

Commozione, disperazione, pietà, compassione, perdono, amara disillusione; nella raffinata levità del verso, la poesia di Wilde stilla sangue autentico, urla lo strazio della carne e il tormento del cuore. La sua ballata è un canto dolentissimo, che nel descrivere il tragico destino di un uomo solo – il soldato Charles Thomas Wooldrige, condannato a morte per aver assassinato la moglie – giunge a toccare l’universale e, come in un magnifico affresco, illumina la condizione esistenziale del prigioniero (che in questo modo si fa categoria dell’umano, o per dir meglio espressione della degenerazione di ciò che dovrebbe considerarsi come essenzialmente umano).

Al di là della perfezione stilistica, al di là di un’estetica del linguaggio che appartiene al poeta così profondamente da definirlo ma che in quest’opera colma di pianto sembra nascondersi a se stessa, le sue pagine hanno la spietatezza quasi insostenibile del vero, i ritratti la concretezza lacerante della testimonianza e le riflessioni la lucidità ardente della conoscenza.

Nel tempo della detenzione, in quell’uniformità immobile che è una delle più spregevoli forme di tortura che si possano immaginare, le ore del condannato a morte sono diverse, sono vita che si consuma, che brucia sulla pelle e vela lo sguardo: “Sei settimane camminò in cortile/Con la misera divisa grigia/E in testa il berretto a visiera;/Sembrava leggero il passo, allegro,/Ma non avevo mai visto nessuno/Scrutare così ansioso il nuovo giorno”. Ed è ancora in quel tempo sospeso, in quell’attendere sterile, insignificante, che si sfilaccia come nebbia e annulla ogni domani nell’eternità incolore di un presente insopportabilmente identico a se stesso, che si svela l’ingiustizia, l’empietà delle leggi imposte dagli uomini ad altri uomini: “Io non so se le leggi sono ingiuste/O se invece sono giuste/In prigione si sa solo/Che le mura sono alte/E che ogni giorno dura un anno/Un anno di lunghi giorni/Ma so bene che ogni legge/Fatta dagli uomini per l’uomo/- Dal triste inizio a questo mondo/Col fratello ucciso dal fratello -/Disperde il grano e conserva la pula,/Scegliendo perfidamente./E ancora questo so, ogni prigione/- Vorrei che tutti lo sapessero -/Costruita dagli uomini per l’uomo/È fatta con mattoni di vergogna/E sbarrata, perché non veda Cristo/Come gli uomini riducono i fratelli”.

La Ballata del carcere di Reading è molto più di una poesia sublime, è la nudità smeraldina di un’anima. Ed è la decisione consapevole di un uomo che ha scelto l’arte come specchio di sé imponendosi però di non mentire, di non confondersi alla vista mascherandosi con i suoi serici drappi. È il proposito fermo di non rinunciare, persino nell’umida oscurità di una cella, al proprio essere artista; per non dover rinunciare a chiamarsi uomo.

Eccovi l’incipit dell’opera. Buona lettura.

 
Non portava più la giubba rossa
Perché rossi sono il sangue e il vino,
E sangue e vino aveva sulle mani
Quando lo trovarono col corpo
Della donna che amava,
Uccisa nel suo letto.
 
Camminava tra gli altri carcerati
Con la misera visiera grigia
E in testa il berretto a visiera;
Sembrava leggero il passo, allegro,
Ma non avevo mai visto nessuno
Scrutare così ansioso il nuovo giorno.
 
Non avevo mai visto nessuno
Con tanta ansia negli occhi
Fissare un pezzetto di azzurro
– In prigione si chiama cielo –
E nubi leggere vaganti
Sospinte da vele d’argento.
 
Camminavo con altre anime in pena
All’interno di un cerchio diverso
Mi chiedevo che cosa avesse fatto
Quell’uomo, cosa da niente o grave
Quando qualcuno disse alle mie spalle
«Quello lo impiccano oggi».
 
Cristo santo! Le mura stesse del carcere
Parvero d’improvviso vacillare
E il cielo sopra divenne
Un casco rovente di acciaio.
Per quanto anch’io fossi anima in pena
La mia pena smisi di sentire.
 
Pensavo soltanto all’ossessione
Che gli affrettava il passo,
Alla ragione di quel suo sguardo
Fisso con ansia nella luce:
Quell’uomo chi amava aveva ucciso,

Per questo doveva morire.

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