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Swann, il principio di un infinito narrare

Recensione di “Dalla parte di Swann – Alla ricerca del tempo perduto I” di Marcel Proust

Marcel proust, Dalla parte di Swann, Mondadori
Marcel Proust, Dalla parte di Swann, Mondadori

Forse nessuna definizione più di quella di romanzo riesce a evocare l’universalità, la totale assenza di confini, l’aristotelica potenzialità di divenir qualsiasi cosa, la bellezza quasi inesprimibile di un raccontare che abbraccia tempo e spazio e non conosce soste né limiti. Eppure, la parola romanzo sembra perdere tutta la propria forza, la propria spinta vitale, e ridursi a una specie di insufficiente categoria, di più, a una semplicistica etichetta, nel momento in cui la si accosta al monumentale lavoro letterario di Marcel Proust Alla ricerca del tempo perduto.

Non v’è dubbio, tuttavia, che i diversi volumi che compongono la sua opera (a partire dal primo, Dalla parte di Swann, di cui intendo trattare) siano romanzo, che la loro struttura narrativa rispetti le regole di questo tipo di lavoro, e che dunque sia ben presente la materialità di una storia e vengano offerte al lettore tanto la bussola (geografica e psicologica) di una particolareggiata descrizione d’ambiente quanto il confronto (intellettuale ed emotivo) con i personaggi.

Ma tutto questo, a ben guardare, non è che dettaglio; non riposano qui, infatti, né la ragione né il senso dell’inesausto scrivere dell’autore francese. Laddove il romanzo, qualsiasi romanzo, si fonda, e giustifica la propria esistenza, nella scelta del tema trattato, nella sua declinazione, nella decisione dello scrittore di celare o dichiarare apertamente le proprie intenzioni, di concentrarsi sull’analisi di un particolare o di illuminare un intero scenario, e ancora nell’azzardo stilistico, nella densità della prosa o al contrario nel suo rarefarsi, nella Ricerca proustiana tutti questi elementi costitutivi vengono derubricati a questioni di secondaria importanza e finiscono per rendere impossibile, o per dir con più esattezza del tutto inutile, guardare ad essa partendo da questi punti di vista. Così, eccoci di fronte a un vero e proprio paradosso, che ci costringe ad ammettere che giudicare Proust secondo criteri squisitamente romanzeschi equivarrebbe a decidere della sostanza religiosa della Bibbia concentrandosi soltanto sulla correttezza della punteggiatura. Che fare, dunque? Come affrontare questo capolavoro affascinante e terribile come un mare in tempesta? Con ogni probabilità, la sola risposta possibile è questa: accettandolo. Immergendocisi. Viaggiandoci insieme e dimenticando, immediatamente dopo essere partiti, di avere una meta, perché il proustiano atto di scrivere è, essenzialmente, ricerca, un continuo peregrinar per sentimenti, ricordi, passioni che non ha lo scopo di recuperare qualcosa di definito, ma l’intenzione, ben più ardita, ben più folle e fino a oggi mai più eguagliata, di ritrovare altri sentimenti, altri ricordi, altre passioni, altri pensieri, che come nuovi punti d’arrivo, in una continua circolarità nutrita dal sostegno fedele della parola, innescano nuove ricerche.

Scrive Carlo Bo nella prefazione all’opera completa edita da Mondadori (collana I Meridiani) e tradotta da Giovanni Raboni: “Questo Proust così letterario, così permeato di intenzioni letterarie, non ha nessuna fiducia nei poteri primi della letteratura; o, per essere più precisi, a un certo punto della sua speculazione si è accorto che sotto un regime di dissoluzione non esistono categorie resistenti oltre l’illusione e che la funzione dell’arte è proprio questa di convincere l’uomo della sua sostanziale miseria e del suo navigare in un mare imperscrutabile. Si ha l’impressione che spinga sempre la sua barca verso il mare aperto epperò quando sta per toccare la terra – sia pure una terra immaginaria – ricomincia da capo. Se fosse vissuto, non avrebbe potuto far altro che continuare a scrivere la Recherche”.
L’affresco, l’inestricabile eppure chiarissimo intreccio di memorie e sensazioni, di attimi che sembrano prendere vita dal sogno per poi ritrovarsi catapultati nel reale e il momento successivo sgranarsi come immagini colte nel dormiveglia per recuperare tutta insieme la propria sostanza nello slancio di un ricordo improvviso o nella spontaneità di una riflessione innescata dal caso, ha, in Dalla parte di Swann, i colori tenui della fanciullezza dell’autore e il quieto respiro della vita di provincia (nel villaggio di Combray), e nello stesso tempo una nervosa tensione verso il futuro, l’angosciosa preoccupazione nei confronti dell’ignoto rappresentata dalla figura di Swann, attraverso il quale il raccontare di Proust si allarga a macchia d’olio, toccando il quadro familiare, il ritratto sociale, la parentesi onirica per poi sempre tornare, con fedeltà d’innamorato, al suo nucleo originario, alla scintilla di memoria, all’occasione di ricordo, a tutto ciò che offre all’uomo l’eternità del pensiero e il miracolo della sua espressione.
Eccovi l’incipit di Dalla parte di Swann. Buona lettura.

A lungo, mi sono coricato di buonora. Qualche volta, appena spenta la candela, gli occhi mi si chiudevano così in fretta che non avevo il tempo di dire a me stesso: «Mi addormento». E, mezz’ora più tardi, il pensiero che era tempo di cercar sonno mi svegliava; volevo posare il libro che credevo di avere ancora fra le mani, e soffiare sul lume; mentre dormivo non avevo smesso di riflettere sulle cose che poco prima stavo leggendo, ma le riflessioni avevano preso un piega un po’ particolare; mi sembrava d’essere io stesso quello di cui il libro si occupava: una chiesa, un quartetto, la rivalità di Francesco I e Carlo V. Questa convinzione sopravviveva per qualche secondo al mio risveglio; non scombussolava la mia ragione, ma premeva come un guscio sopra i miei occhi impedendogli di rendersi conto che la candela non era più accesa. Poi cominciava a diventarmi incomprensibile, come i pensieri di un’esistenza anteriore dopo la metempsicosi; l’argomento del libro si staccava da me, ero libero di pensarci o non pensarci; immediatamente recuperavo la vista e mi sbalordiva trovarmi circondato da un’oscurità che era dolce e riposante per i miei occhi ma più ancora, forse, per la mia mente, alla quale essa appariva come una cosa immotivata, inspiegabile, come qualcosa di veramente oscuro.

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