Recensione de “Il mago di Lublino” di Isaac B. Singer
Funambolo, illusionista, “mago”, Yasha Mazur è una bizzarra figura d’artista, un uomo dal talento multiforme, un solitario che ha conoscenze in ogni strato della società ma che non sembra avere nessun vero amico, e che pur avendo una moglie devota coltiva ovunque amanti.
Yasha il mago è un ebreo e tuttavia non ha fede; crede, certo, ma la sua religiosità è una sorta di deismo, un pensiero squisitamente razionale che pur riconoscendo (o meglio ammettendo) l’esistenza di un’intelligenza ordinatrice del mondo, rifiuta la sua identificazione con qualsivoglia divinità delle religioni positive e disprezza le ritualità che ne accompagnano la devozione (“esisteva un Creatore, che però non si rivelava a nessuno e non lasciava capire in alcun modo cosa fosse permesso o proibito. Coloro i quali parlavano in suo nome erano mentitori”).
Figura quasi indefinibile, sospesa tra le sconfinate possibilità del sogno, di cui la magia in fondo non è che un’espressione, e la durezza di un vivere quotidiano nutrito solo di preoccupazioni materiali, dolore e rimpianto, Yasha è il protagonista del meraviglioso romanzo di Isaac B. Singer Il mago di Lublino. Le sue continue riflessioni sul bene e sul male, sull’ombra di Dio che sembra seguirlo ovunque e sfidarlo a dimostrare, a dimostrare razionalmente, la sua inconsistenza, a denunciarne la patetica invenzione, il suo agire caotico, impulsivo, governato soltanto dall’istinto, dalla prepotenza del bisogno immediato, eppure in qualche strano modo anche etico, rispettoso, obbediente a principi sacri (non esiste serratura o congegno meccanico che Yasha non riesca a forzare, nonostante ciò, egli non ha mai pensato di sfruttare questa sua eccezionale capacità per compiere furti), sono specchio dell’essenziale fragilità della condizione umana e dell’insondabile mistero nella quale si trova immersa.
Colosso dai piedi d’argilla, Yasha è un personaggio orgoglioso e patetico insieme; Singer lo disegna con umanissima pietà, ne compone il ritratto psicologico con cura amorevole e precisione assoluta, evidenziandone il coraggio come le debolezze, illuminandone allo stesso tempo risolutezza e indecisione. Il mago di Lublino è un uomo che ha scelto di interpretare la vita perché si è reso conto di non essere abbastanza forte per affrontarla; che ha deciso di camminare su una corda tesa sospesa nel vuoto e di compiere centinaia di altri esercizi di abilità per sfuggire a doveri di certo più prosaici ma anche molto più impegnativi; che si è concesso la più ampia libertà di amare per non essere costretto a educare la propria passione alla fatica della fedeltà responsabile.
È con occhi di bambino che Yasha giudica se stesso e il proprio tempo; con fanciullesca ingenuità egli trova giustificazioni per il proprio comportamento, e senza apparente rimorso si fa scudo della sua dichiarata onestà. Che importa, infatti, che ami più di una donna se a ciascuna di esse si offre interamente? Cosa contano le sofferenze che causa alla moglie quando si allontana da lei per correre dall’amante, e poi quelle che patisce quest’altra donna quando il mago la lascia per non mancare a un altro appuntamento, se nessuna di queste azioni ha mai carattere definitivo, se Yasha, terminato il suo giro di spettacoli nelle sperdute cittadine della provincia polacca, torna immancabilmente a casa e ogni cosa riprende il ritmo di sempre?
Nell’organizzare la propria esistenza come un gioco di prestigio, come un’illusione, come una gioiosa rappresentazione in cui tutto può accadere, quest’uomo solo e ingannato da se stesso cerca un impossibile rifugio dalle proprie responsabilità. Ma la vita bracca Yasha come un’inferocita muta di cani che abbia fiutato la preda e non intenda lasciarsela scappare; gli tende i suoi tranelli, lo seduce, e alla fine lo punisce mostrandogli impietosa la vanità del suo affannarsi e distruggendo il suo magnifico castello di carte. Così, a quel che un tempo fu un mago, un artista ammirato e perfino temuto, non resta che l’espiazione dei propri peccati; Yasha torna a casa per l’ultima volta e si fa murare nel proprio cortile per consacrare ogni suo giorno a Dio, al Dio dei rabbini, della Torah e dei testi sacri, al Dio rifiutato per anni ma mai abbandonato del tutto, perché nel mondo ogni più piccola meraviglia canta le lodi del suo creatore ed è impossibile non vederla, non fermarsi ad ammirarla.
Quel mattino Yasha Mazur, o il Mago di Lublino, com’egli era conosciuto ovunque tranne nella sua città natale, si destò di buon’ora. Rimaneva sempre a letto per uno o due giorni, dopo aver fatto ritorno da un viaggio; lo sfinimento imponeva che indulgesse a un sonno ininterrotto. Sua moglie Ester gli portava dolciumi, latte, un piatto di minestra d’avena; lui mangiava e tornava ad appisolarsi. Il pappagallo strillava; Yoktan, la scimmia, batteva i denti; i canarini fischiavano e trillavano, ma Yasha, ignorandoli, si limitava a rammentare ad Ester di abbeverare le cavalle. Avrebbe potuto fare a meno di impartirle tali istruzioni; ella ricordava sempre di attingere acqua al pozzo per Kara e Shiva, le loro due giumente grigie, o, come Yasha le aveva soprannominate, Polvere e Ceneri. Yasha, benché fosse mago, era considerato ricco; possedeva una casa e, insieme ad essa, granai, silos, stalle, un fienile, un’aia con due meli, persino un orto nel quale Ester coltivava le verdure che le occorrevano. Una sola cosa gli mancava: i figli. Ester non poteva concepire. Ma sotto ogni altro aspetto era una buona moglie: sapeva lavorare a maglia, cucire un vestito nuziale, cuocere al forno il panforte e le torte, estirpare la pipita ai polli, applicare una ventosa o sanguisughe, addirittura salassare un paziente. In età più giovanile aveva tentato rimedi di ogni sorta contro la sterilità, ma ormai era troppo tardi… aveva quasi quarant’anni.