Recensione di “Moby Dick” di Herman Melville
Nella staticità forzata di un viaggio per mare, nella presenza opprimente dell’infinità che da ogni lato circonda i naviganti, negli spazi chiusi, saturi e claustrofobici di una nave, che per l’equipaggio è al medesimo tempo casa e prigione, nel ribollire incessantemente minaccioso dell’ignoto, nel paziente ricamo di un ineluttabile destino di tragedia.
È in questo essenziale quadro di caducità e dolore, di fragilità e di testarda opposizione ad essa che l’odissea narrata da Herman Melville in Moby Dick si compie. Scarno fin quasi ad apparire elementare nella trama (che si può riassumere nel resoconto del viaggio di una baleniera a caccia di cetacei, di uno in particolare, una balena enorme e bianca), il più celebre romanzo dello scrittore statunitense rivoluziona i canoni dell’avventura letteraria; il tempo immobile dei giorni che si susseguono uguali a se stessi, l’obiettivo della spedizione (la cattura e l’uccisione di Moby Dick, la balena bianca), chimerico come un desiderio, febbricitante come l’ossessione che consuma Achab, il capitano della nave, riverberano nell’ipnotico andamento di una prosa arcaica e sovrabbondante, estenuata di rimandi, spiegazioni, dettagli, digressioni, tecnicismi. L’horror vacui del discorrere continuo di Melville è l’eco dell’interminabile orizzonte verso il quale puntano i suoi personaggi e lo specchio della vanità delle ambizioni umane, quale che sia il sentire che le alimenta; nelle sue pagine, colme come forzieri carichi di monete d’oro, si trova qualunque cosa, ma non le risposte ai dubbi degli uomini imbarcati sulla baleniera Pequod, non rassicurazioni per le loro paure, non un balsamo che dia requie alla rabbia impotente di Achab, cui Moby Dick ha strappato una gamba. E l’esplodere, il fiammeggiare improvviso di un’azione, la concitazione di un particolare momento, il barlume di verità, di gioia, persino di sognante abbandono che sembra profilarsi nella sincerità ruvida di una conversazione, non rappresentano altro che il momentaneo riacutizzarsi di un pungolo, il riaccendersi flebile di una volontà comunque condannata alla sconfitta, all’oblio, e proprio come ciò di cui sono specchio, queste parentesi di scrittura brillano per un’istante e immediatamente vengono inghiottite dal cono d’ombra di un racconto che non sa saziarsi di se stesso. “Ma sì, ma sì”, confessa Achab ai suoi uomini, urlando loro in faccia, insieme alla propria umiliazione, tutta la sua voglia di riscatto, di rivincita, “è stata quella maledetta balena bianca che mi ha smantellato e mi ha ridotto per sempre un povero buono a niente! […] E io l’andrò a scovare dietro al Capo di Buona Speranza e al Capo Horn e al Maelstrom e alle fiamme della perdizione prima di perdonargliela. Ed è per questo che vi siete imbarcati, marinai! Per cacciare quella balena bianca su tutti e due i lati del continente e in ogni parte del mondo, per fargli sfiatare sangue nero, per buttarla a pinne in aria”, ma il suo grido somiglia al disperato lamento del naufrago, al suo fiato inghiottito dal vento, bagnato dal respiro del mare, incomprensibile alla natura, partorito già morto.
Allegoria (del vero, del bene, del male, della vita, della morte e di molto altro ancora), enciclopedico saggio travestito da romanzo, opera di tale vastità e profondità da sfuggire a qualsiasi classificazione, Moby Dick è senza alcun dubbio un unicum nel panorama letterario mondiale. Sa evocare, affascinare e conquistare nello stesso modo in cui sa precipitare il lettore nel più buio e profondo degli inferi: è un libro-montagna, un romanzo-abisso, un cammino impervio, faticoso e straziante come un processo di autocoscienza. Nel viaggio di Achab e del Pequod, nella cronaca che ne fa Ismaele (io narrante della vicenda e alter ego dell’autore), Melville ha cercato di raccontare la realtà, il proprio tempo, se stesso, e più di tutto quel ritornare costante, in ogni epoca della storia, delle medesime cose; gli uomini innanzitutto, ostaggi della propria imperfezione, poi tutto ciò che da loro prende vita, e che per questa sola ragione fatalmente si corrompe. È il presente che si coglie in ogni tempo la misura del nostro peccato originale ed è nel viaggio (tanto nell’esteriore quanto in quello interiore), nella sua particolare dimensione, che si manifesta con tragica, intollerabile chiarezza, con la forza irresistibile della verità confessata.
Eccovi l’incipit del romanzo. Buona lettura.
Chiamatemi Ismaele. Qualche anno fa – non importa quando esattamente – avendo poco o nulla in tasca, e niente in particolare che riuscisse a interessarmi a terra, pensai di andarmene un po’ per mare, e vedere la parte equorea del mondo. È un modo che ho io di scacciare la tristezza, e regolare la circolazione. Ogni volta che mi ritrovo sulla bocca una smorfia amara; ogni volta che nell’anima ho un novembre umido e stillante; quando mi sorprendo a sostare senza volerlo davanti ai magazzini di casse da morto, o ad accodarmi a tutti i funerali che incontro; e soprattutto quando l’ipocondrio riesce a dominarmi tanto, che solo un robusto principio morale può impedirmi di uscire deciso per strada e mettermi metodicamente a gettare in terra il cappello alla gente, allora mi rendo conto che è tempo di mettermi in mare al più presto. Questo è il mio surrogato della pistola e della pallottola. Con un gran gesto filosofico Catone si butta sulla spada: io zitto zitto m’imbarco. E non c’è niente di strano. Se soltanto lo sapessero, prima o poi quasi tutti nutrono, ciascuno a suo modo, su per giù gli stessi miei sentimenti per l’oceano.