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Perché i poveri è del pane che mancano

Recensione di “Le parrocchie di Regalpetra” di Leonardo Sciascia

 

Leonardo Sciascia, Le parrocchia di Regalpetra, Adelphi
Leonardo Sciascia, Le parrocchie di Regalpetra, Adelphi

Regalpetra, realtà inesistente di una Sicilia (e di un’Italia) autentica, è il simbolo del legame indissolubile tra letteratura e verità che ha caratterizzato l’intera opera di Leonardo Sciascia.

Commosso ricordo del proprio paese natale (Racalmuto), spietato j’accuse di un tempo (quello del Ventennio, ma anche quello della democrazia immatura e disonesta del post-fascismo) e di una condizione umana spenta, derubata di moralità e coscienza, e infine omaggio a Nino Savarese, autore dei Fatti di Petra, la Regalpetra presentata ne Le parrocchie di Regalpetra, splendido romanzo-saggio pubblicato da Laterza nel 1956, è un luogo della coscienza, è il tormento di un’anima incorrotta, è il rovello esistenziale di un uomo e di uno scrittore che, non potendo fare a meno di osservare, non rinuncia a denunciare.

La prosa di Sciascia è pulita e forte, rigorosa ed elegante, ma soprattutto talmente preziosa da divenire indispensabile nella misura in cui è sincera; dalle sue pagine di cronaca storica e sociale quel che emerge con prepotenza è il bisogno di raccontare, l’urgenza febbrile di testimoniare, di dare un senso, una ragione al mestiere di scrivere. Egli dipinge con passione la Sicilia rurale, arretrata, ingiusta che ha vissuto e respirato, amato e odiato. La ritrae con attenzione, con cura, con magistrale misura e nel farlo si preoccupa di non chiudere la porta ai sentimenti, pur non permettendogli mai di prendere il sopravvento e di pregiudicare la sua obiettività.

Non si fatica a percepire il dolore nelle pagine de Le parrocchie di Regalpetra, né alcun altro moto dell’animo l’autore si premura di celare; scrivendo, Sciascia in qualche modo si confessa e si sfoga, ma a ogni speranza perduta, a ogni delusione provata egli, invece di arrendersi, testardamente oppone la propria cristallina dignità di persona mettendo la propria voce a disposizione di chi affoga nella palude della miseria e del malaffare, facendogli alzare, forse per la prima volta nella vita, la testa.

“Tremilacentotrentacinque poveri sono troppi per un paese di circa dodicimila abitanti; ma sono poveri, come si dice, ritirati, non rovesciano nelle strade lo spettacolo della loro miseria; in silenzio la soffrono, solo tre o quattro mendicanti tessono le strade, e forse sono quelli che meno hanno bisogno, il mendicare è come un vizio. Al presidente dell’ECA [Ente Comunale di Assistenza, ndr] domando che cosa mangino questi poveri, mi risponde – in media, mezzo chilo di pane, un pugno di minuzzaglia (minuzzaglia è il residuo dei pacchi di pasta, e i bottegai la vendono a prezzo ridotto), cinquanta grammi di verdure di campo. Accade che se la Pontificia Commissione distribuisce del burro o se l’ECA dà scatole americane di carne, i poveri queste cose subito vendono, dicono che a mangiarle ci vuol pane a volontà, e loro è il pane che non hanno; qualche povero che sa di lettere dice che a mangiare carne e burro rischierebbe di fare la fine di Bertoldo, che come è noto morì per non aver più potuto, alla corte di Alboino, nutrirsi di rape e fagioli”.

Il narrare timido e potente insieme de Le parrocchie di Regalpetra nasce dal resoconto di uno Sciascia maestro di scuola, ma fin da subito erompe dai propri argini e si fa disincantata riflessione di un finissimo conoscitore d’uomini. Il volgare blaterar d’imbonitori degli esponenti politici nell’Italia liberata, sorta di grottesco, miserevole controcanto della marziale retorica mussoliniana; la fede vestita della devozione ignorante e ingenua del popolo che imbastisce feste e processioni per celebrare ogni sorta miracoli ma anche dei lucidi abiti neri dei preti nuovi “attivi e trafelati come se gestissero imprese commerciali, pipistrelli che svolazzano negli uffici regionali e nelle anticamere degli uomini politici, le tasche piene di lettere intestate ‘Camera dei Deputati’ ‘Senato della Repubblica’ ‘Assemblea Regionale’”; la condizione terribile di salinari e zolfatari, prigionieri di un lavoro (l’unico possibile) che è la loro condanna a morte, e quella altrettanto tragica dei giovanissimi, gli scolari di Sciascia, ragazzi nei cui volti e modi ed espressioni lo scrittore vede incisi il duro passato dei padri e l’assenza pressoché totale di prospettive del loro futuro: tutto questo e tanto altro ancora Leonardo Sciascia affida alla punta affilatissima e carezzevole della propria penna, regalando al lettore un’opera bellissima e straziante. Un libro che, come tutto ciò che è vero, non ha età.

Eccovi, invece dell’incipit, la meravigliosa conclusione dell’introduzione, scritta dallo stesso Sciascia. Buona lettura.

La Sicilia è ancora una terra amara. Si fanno strade e case, anche Regalpetra conosce l’asfalto e le nuove case, ma in fondo la situazione dell’uomo non si può dire molto diversa da quella che era nell’anno in cui Filippo II firmava un privilegio che dava titolo di conti ai del Carretto e Regalpetra elevava a contea. Giorni addietro un mio parente mi diceva – ho saputo che hai scritto delle castronerie sui ragazzi che vanno a servizio, davvero castronerie sono, io sto cercando per terra e per mare un ragazzo per i servizi di casa, manco a pagarlo a peso d’oro lo trovi. Dico – bene, è segno che si sta meglio. Bestemmiando mi investe – bene un c…; io non posso trovare un ragazzo e tu mi dici bene, capisci che senza un ragazzo non posso andare in campagna?; e poi non credere che sia impossibile trovarlo perché ora si sta meglio; meglio un c… si sta; è che non vogliono venire a servizio per orgoglio, si contentano morire di fame. Involontariamente dico ancora – bene. Per fortuna non sente, continua – sai che mi disse una mamma che voleva allogare il figlio da me? mi disse che era delicato e almeno un uovo al giorno avrei dovuto dargli; così sono fatti oggi i poveri, e tu scrivi…

Questo c’è di nuovo; l’orgoglio; e l’orgoglio maschera la miseria, le ragazze figlie di braccianti e di salinari passeggiano la domenica vestite da non sfigurare accanto alle figlie dei galantuomini, e i galantuomini commentano – guardate come vestono, il pane di bocca si levano per vestire così -; e io penso – bene, questo è forse un principio, comunque si cominci l’importante è cominciare. Ma è un greve cominciare, è come se la meridiana della Matrice segnasse un’ora del 13 luglio 1789, domani passerà sulla meridiana l’ombra della Rivoluzione francese, poi Napoleone il Risorgimento la rivoluzione russa la Resistenza, chissà quando la meridiana segnerà l’ora di oggi, quella che è per tanti altri uomini nel mondo l’ora giusta. 

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