Recensione di “Anna Karenina” di Lev N. Tolstoj
Non c’è eroina letteraria più celebre di Anna Karenina, né trama più nota di quella che la vede tragica protagonista, eppure il romanzo-capolavoro di Lev Tolstoj, a dispetto del passare del tempo, dell’attento vaglio della critica, delle prese di posizione di generazioni di lettori e delle innumerevoli interpretazioni fiorite al cinema e in televisione, non cessa di attrarre, sorprendere, incuriosire, come se non avesse ancora detto tutto ciò che ha da dire.
E forse è proprio così che stanno le cose, forse Anna Karenina è davvero un’opera inesauribile, infinita, capace di raccontarsi ogni volta in modo diverso, perché privo di confini ed eccezionalmente ricco di implicazioni e conseguenze è il suo tema principale: la fedeltà degli uomini alla propria natura morale, il dovere della loro appartenenza a un preciso universo etico.
Riflesso di un’anima irrequieta, che senza sosta ha cercato le verità ultime sull’uomo e su Dio nell’ingenuo ottimismo umanista, nel fervore ideale della pedagogia, nella vertigine della metafisica, nella realtà “pura” di una storia intessuta dagli ultimi e governata da bontà e carità, nel sofferente abbandono del misticismo, nel ricorrente sogno a occhi aperti dell’utopia, la prosa del grande scrittore russo, nel suo incedere potente e vitale, ne riecheggia la grandezza delle aspirazioni e allo stesso tempo ne compone le inevitabili contraddizioni.
Alla pagina scritta, alla responsabilità della letteratura, alla sua forza evangelizzatrice, Tolstoj affida per intero se stesso; dei suoi protagonisti condivide dolori, speranze, intenzioni, scelte e desideri, del loro carattere partecipa e delle loro vite è compagno prima che testimone; l’atto stesso di narrare per lui equivale a un deciso schierarsi, a un confessare apertamente il proprio pensiero. Nel personaggio di Anna Karenina, nell’avvampare del suo amore per Vronskij, nella sua passione vissuta completamente, come solo si può vivere ciò che è autentico, nel sacrificio di sé che ella compie accettando che la propria relazione clandestina diventi pubblica, si esponga al disprezzo della società e in tal modo si esaurisca come meschino tradimento per rinascere, inviolata, per quello che davvero è, un sentimento incorrotto, Tolstoj celebra la dignità e il valore di una persona, la sua capacità di affrontare i più terribili tormenti (ed esiste qualcosa di più devastante, per una madre, della separazione forzata dal proprio figlio?) pur di non tradire se stessa.
Non è semplicemente il coraggio di una donna che Tolstoj intende rappresentare, né il suo infelice destino; Anna Karenina è un’odissea personale, una solitaria via della croce, e l’autore ne sottolinea di continuo la drammatica singolarità nel bruciante confronto con altri caratteri; con la viltà del marito Karenin, che della propria condizione di “vittima” approfitta per intascare la solidarietà a buon mercato della buona società pietroburghese, con la debolezza di Vronskij, che pur amando sinceramente Anna neppure per un momento riesce a comprendere cosa sia quel che Anna prova per lui, con la colpevole leggerezza di suo fratello Stepan, per il quale esiste unicamente l’egoistica soddisfazione dei propri capricci. Né di questi contraltari negativi Tolstoj si accontenta, perché accanto alla vicenda di Anna e Vronskij corre parallela quella felice di Levin e Kitty, che culmina nel matrimonio, un idillio che per Anna è stato prima un sogno infranto e poi una devastante illusione.
Travolgente romanzo d’amore, Anna Karenina oltre a essere uno dei massimi capolavori della storia della letteratura, è un severissimo paradigma morale, che costringe il lettore a un confronto sull’essenza stessa dell’essere umano, su cosa significhi essere una persona e riconoscersi come tale, quale che sia la condizione materiale, e ancor più spirituale, che ci si trovi a vivere.
La voce di Tolstoj si leva limpida da queste pagine (proprio come accade nell’altro suo monumentale lavoro, Guerra e pace, di cui ho già scritto in questo blog), impreziosita dalla castigata eleganza delle scelte linguistiche, dall’intensità dei dialoghi, dal realismo delle descrizioni, dal prezioso ricamo delle atmosfere, ma soprattutto amplificata dal voto di obbedienza compiuto dall’autore. Dalla sua argentina lealtà, all’uomo, al suo ruolo nella storia e all’imperscrutabile bontà di Dio.
Eccovi, invece dell’inizio del romanzo, un estratto di uno scritto di Vladimir Nabokov, inserito come postfazione nell’edizione Mondadori (la traduzione del romanzo è di Annelisa Anneva. Quella del saggio di Nabokov di Ettore Capriolo).
Molti s’accostano a Tolstoj con sentimenti contrastanti. Amano l’artista e il predicatore li annoia a morte: ma va detto che è piuttosto difficile separare Tolstoj il predicatore da Tolstoj l’artista – è una nube di visioni o un carico di idee. Ciò che verrebbe voglia di fare è dare un calcio al podio glorificato su cui poggiano i suoi sandali e rinchiuderlo in una casa di pietra o su un’isola deserta con litri d’inchiostro e risme di carta – lontanissimo dalle questioni, etiche e pedagogiche, che distoglievano la sua attenzione dall’osservare come i capelli scuri di Anna s’arricciavano sul suo bianco collo. Ma questo non è possibile: Tolstoj è omogeneo, è unitario, e la lotta che si svolse, specie nei suoi ultimi anni, tra l’uomo che guardava avidamente la bellezza della terra nera, della carne bianca, della neve azzurra, dei campi verdi, delle nubi violacee, e l’uomo persuaso che la narrativa è peccaminosa e l’arte immorale – questa lotta era comunque chiusa all’interno dello stesso uomo. Sia che dipingesse sia che predicasse, Tolstoj si sforzava, a dispetto di qualsiasi ostacolo, di pervenire alla verità. Come autore di Anna Karenina si servì per scoprirla di un metodo; nelle prediche, ne usò un altro; ma in qualche modo, per quanto sottile fosse la sua arte e per quanto noiosi certi altri suoi atteggiamenti, quella verità verso la quale goffamente annaspava o che trovava per magia appena dietro l’angolo, era sempre la stessa – questa verità era lui e questo lui era un’arte […]. La verità essenziale, istina, è una delle poche parole russe non rimabili. Non ha un compagno verbale e non ha associazioni verbali, si erge sola e isolata, a parte una vaga indicazione della radice «ergersi» nello scuro fulgore della sua antichissima roccia. Quasi tutti gli scrittori russi hanno mostrato uno straordinario interesse per l’esatta ubicazione e le proprietà essenziali della Verità. Per Puskin era marmo sotto un nobile sole; Dostoevskij, scrittore assai inferiore, la vedeva come una cosa di sangue e lacrime e isterismi e attualità politica e sudore; Cechov la guardava incuriosito, anche se apparentemente assorto nel nebbioso paesaggio che la circondava. Tolstoj avanzava deciso verso di lei, a testa bassa e coi pugni stretti, e trovò il luogo dove una volta s’ergeva la croce, o trovò – l’immagine del proprio io.