Recensione di “La camicia di ghiaccio” di William T. Vollmann
A metà tra storia e leggenda, tra ricostruzione di un lontanissimo passato e allegorica raffigurazione del mito, La camicia di ghiaccio di William T. Vollmann è un’opera unica, un romanzo di assoluta originalità e di travolgente bellezza.
Primo capitolo del monumentale Ciclo dei Sette Sogni, questo libro contiene in sé una duplice trama, quella più generale, filo rosso dell’intera saga, che racconta della scoperta degli Stati Uniti e delle tragedie che hanno accompagnato i tentativi di colonizzazione di questa terra nuova, promettente, sconosciuta e ostile (in particolar modo delle lotte, quasi sempre impari, che hanno visto opposti nativi e invasori), e quella più specifica, che scandisce cronologicamente il sanguinoso travaglio che ha condotto alla nascita dell’America così come la conosciamo.
Al principio, lungo le coste di questo mondo incontaminato, disseminato ovunque di grappoli di uva selvatica, giungono le navi dei norvegesi e dei groenlandesi: superato il gelo, attraversata la bruma che senza sosta si leva dalla vastità delle inospitali acque nordiche, il robusto fasciame delle imbarcazioni conduce questi uomini, figli di una terra, scrive l’autore, “troppo concreta per essersi abbattuta all’improvviso sulla caparbietà del mondo”, discendenti di un’epoca di magia, di un’età epica, dove la meraviglia era cosa comune e la natura e coloro che la abitavano erano inscindibili parti di un tutto, e i re della dinastia Yngling si combattevano l’un l’altro mutandosi in orsi, gareggiando in ferocia, superandosi in astuzia ma cedendo, giorno dopo giorno, alle risorse pressoché infinite di una crudeltà squisitamente umana, finché della loro capacità di divenir altro da sé non rimase che una pallida memoria, a conoscere questi luoghi di perfezione quasi divina, profumati, ricchi e inebrianti come parole d’amore. Qui, nella vastità delle foreste, nella cristallina quiete dei laghi, lungo corsi d’acqua traboccanti di vita, i coloni hanno modo di incontrare, e poi di combattere, coloro che già abitano il nuovo mondo; ai loro occhi, infatti, i nativi sono selvaggi, pezzenti, “skraeling”, gente orribile nell’aspetto e incomprensibile nei modi e nel linguaggio. “Gli aspiranti colonizzatori”, spiega Vollmann, “li disprezzavano, ritenendoli dei criminali, e li truffarono nei commerci, oppure li uccisero durante il sonno. Naturalmente gli indiani si ribellarono a tutto ciò, tanto che alla fine i colonizzatori desistettero. E Vinland rimase indisturbata per altri seicento anni”.
Lo scrittore americano racconta con stile fiammeggiante, mescolando una gran varietà di fonti, intrecciandole con l’accesa visionarietà della propria prosa e con la testimonianza personale (sui luoghi di cui narra egli si recò verso la fine degli anni ottanta, alla ricerca di storie, di tradizioni, e dei resti degli insediamenti vichinghi).
La saga dei groenlandesi, La saga di Eirik il Rosso, il Flateyjarbók (raccolta su pergamena di saghe e miti norreni scritta nel 1382), l’Heimskringla (la storia dei re norvegesi scritta da Snorri Sturlusson), il Landnámabók (il libro islandese degli insediamenti); rimodellato dal magistrale talento narrativo di Vollman, tutto questo materiale diviene immaginifica cronaca di una conquista desiderata e perduta, dove le descrizioni d’ambiente hanno la suggestione preziosa dell’innocenza primordiale – “Intorno alle navi la terra si incurvava. Sulle sue dita crescevano alberi verde scuro. Imboccarono una bassa laguna, le cui increspature erano come mille sorrisi […]. I trilli degli uccelli tra gli alberi erano l’unica musica. Alcuni falchi neri piroettavano lentamente nell’aria e la luce del sole che li circondava era come un liquido, tanto che essi parevano grumi di sangue gelatinoso immersi nell’acqua. L’erba si agitava al vento e tutt’intorno c’era l’odore del mare. Sull’erba morta erano cresciute piccole felci a foglie larghe, che ora danzavano al sole, poiché Wineland era la Terra del Sole, la Terra dell’Estate, e in essa non c’erano mai stati i Re-Orso; e i groenlandesi corsero a riva per bere la dolce rugiada dalle coppe dei fiori e pensarono di aver mai assaggiato nulla di così dolce, e furono felici” – i personaggi e le loro azioni la grandezza vertiginosa di un eroismo arcaico (è il caso di Freydis, figlia di Eirik il Rosso e devota al demone dalle mani nere Amortortak; spinta soltanto dalla propria ambizione, questa donna sopravvive ai rigori terribili di Jötunheim, regno dei Giganti del Gelo, affronta Hel, la regina dei morti, nella sua dimora, dalle cui mura cola veleno di serpenti, e salva la propria colonia da un attacco degli skraeling andando loro incontro a seni nudi, percuotendoseli con una spada e in tal modo terrorizzandoli e costringendoli alla fuga), e dove la verità della storia sfuma nell’infinità creatrice del simbolismo (meravigliose le pagine che narrano i ripetuti scontri tra Amortortak, divinità del gelo decisa a cingere Vinland nel proprio inverno perenne, e Kluskap, personificazione di un potere benigno nella cultura degli indiani micmac).
La camicia di ghiaccio è un libro potente ed emozionante, ambizioso come l’idea da cui è nato. La scrittura di Vollmann incalza il lettore, lo seduce e lo porta con sé in un viaggio insieme splendido e spaventoso, che non somiglia a nessun altro e che, una volta cominciato, non si dimentica più.
Eccovi l’inizio del romanzo (l’ottima traduzione è di Nazzareno Mataldi). Buona lettura.
Proprio come un incipiente capogiro può essere annunciato da un cambiamento nel ritmo dell’acqua corrente, così la Groenlandia, essendo un fatto troppo concreto per essersi abbattuto all’improvviso sulla caparbietà del mondo, si manifestò all’inizio tramite segni segreti – o così dovrei scrivere per farvi piacere, perché quale Storia del Nostro Continente potrebbe interessare se non fosse intrisa di segreti? – o quantomeno tramite PRESAGI che solcarono le insenature e che nessuno dei nostri padri settentrionali seppe subito interpretare, presi com’erano anche d’estate da attività non verdi, quando gli uccelli cantavano al sole per tutta la durata dei lunghi e verdi giorni-muschio; perché il clima degli avi era un clima grigio, un muro compatto di nubi che sbarrava le lacrime dorate del sole, così che ovunque andassero gli uomini arrivava il fragore delle corazze grigie, l’urlo dei cavalli da battaglia grigi, lo “scrosciare guerresco di frecce grigie” (Thord Kolbeinsson); mentre d’inverno gli uomini erano bloccati dal freddo, bloccati dal grigio, fermi a osservare la neve grigia che come polvere cadeva tra i rami grigi, mentre dai tetti delle case si allungavano ghiaccioli grigio-argentei.