Recensione di “Exiles” di James Joyce
Le sotterranee, gelide correnti del dubbio, l’assillo estenuante del sospetto, la volontà disperata di liberarsene (dimostrazione di forza interiore e di coerenza con i propri convincimenti) e il desiderio irresistibile dell’incertezza e della sua tortura, di una sofferenza acuta, terribile, ma comunque preferibile alla definitiva sentenza della verità. Questi gli oscuri, fluidi confini che James Joyce esplora in Esuli, la sua unica opera scritta per il teatro.
In questo denso dramma in tre atti dalla forte componente autobiografica Joyce spalanca l’abisso di personali tormenti interiori raccontando la storia di Richard Rowan (il suo alter ego), scrittore irlandese tornato a Dublino (siamo nel 1912) dopo una lunga permanenza a Roma; sposato con Bertha, padre di un bambino di otto anni di nome Archie, Rowan è convinto, o meglio crede di sapere che tra lei e un suo caro amico, il giornalista Robert Hand, ci sia qualcosa, un sentimento, una passione, un amore che attende soltanto di potersi realizzare. Il progressivo fortificarsi della sua sicurezza che si tramuta in ossessione, i pensieri che naufragano in nere pozze d’incubo, e Richard che lotta contro le paure che da ogni parte lo stringono d’assedio e cerca, in un continuo confronto con se stesso, con il proprio rivale e con la moglie, di capire cosa sia, cosa sia veramente l’amore, quasi che nel raggiungimento di questa consapevolezza possa trovare, una volta per tutte, la salvezza e la pace, costituiscono l’ossatura tematica e stilistica del lavoro dell’autore di Ulisse. Asciutto e tagliente nel linguaggio, Joyce esplora i più segreti moti dell’animo umano con sensibilità e coraggio: i dilemmi che i suoi personaggi sono chiamati ad affrontare paiono senza soluzione, eppure nessuno di loro si sottrae alla prova, nessuno rinuncia a confessare la propria verità, a trovare un perché, a spiegare il senso di un rapporto che per dirsi tale dovrebbe fondarsi su ragioni inoppugnabili, evidenti alla mente come al cuore: “Ma tu hai…Hai la certezza lampante che proprio il tuo sia il cervello accanto al quale lei deve intendere e volere e che proprio tuo sia il corpo al cui contatto il suo deve godere? Ce l’hai questa certezza dentro di te?”, chiede Richard all’amico con un’asia disperata che è genuina sete di verità, cristallina necessità di comprendere, di accettare la realtà delle cose per poterle amare, anche quando queste cose sono l’esatto opposto di quel che vorremmo fossero. E A Robert che semplicemente replica chiedendogli se lui possieda questa certezza, egli risponde: “Una volta l’avevo, Robert: una certezza chiara, inconfutabile come la mia stessa esistenza… o un’illusione altrettanto chiara”, e poi conclude il suo sfogo con una resa tanto chiara nei termini quanto falsa nelle intenzioni: “Se tu l’avessi e io capissi che ce l’hai, anche adesso […]. Me ne andrei. Tu, e non io, saresti l’uomo di cui lei ha bisogno. Tornerei solo, come prima di incontrarla”.
Nella metaforica arena del serrato confronto dialettico tra i protagonisti, libertà, fedeltà, sfrenatezza e arbitrio combattono una battaglia di primordiale ferocia senza che nessuno di questi elementi riesca a prevalere sugli altri; l’assoluto che tutti bramano, infatti, resta inconoscibile, inafferrabile, condannando a una patetica sconfitta uomini e donne che hanno rifiutato di arrendersi all’incomprensibilità dei rispettivi sentimenti. In un drammatico rincorrersi di colpe, rimorsi, brame confessate, opportunità sfiorate, occasioni mancate, i personaggi sembrano perdere definitivamente se stessi: Richard rifugiandosi nell’oscurità di una non conoscenza ostinata e vile – “Mi sono ferito l’anima per te…”, dichiara alla moglie, “una profonda ferita di dubbio che non potrà mai rimarginare. Non saprò mai, mai più finché vivo” – Robert costringendosi ha un allontanamento dall’amata che ha il sapore amaro dell’esilio, Bertha infine richiamando a sé Richard nell’indistinzione di un passato ormai remotissimo, di un ritorno alla felicità perduta che ha a proprio prezzo l’oblio del presente (“Dimenticami Dick. Dimenticami e amami come la prima volta”). Su questo naufragio, unica, fragile forma di salvezza per l’afflitta umanità di Joyce, il sipario cala.
Scrive Stefano Manferlotti nel suo ricco saggio James Joyce (Rubbettino Editore) a proposito di questo lavoro “Arricchito da una serie di note al testo, dove l’autore chiosa le situazioni dell’opera, indicando puntigliosamente gli elementi autobiografici quando ci sono, dando anche ragione del titolo (Richard era stato nove anni in esilio intellettuale a Roma, ma nel dramma le condizioni di distacco fra i personaggi, di esilio spirituale sono più d’una, donde il plurale Esuli), il dramma paga il debito contratto da Joyce con Ibsen nella situazione stessa posta a perno dell’azione (se di azione si può parlare) e nella tessitura dei dialoghi, tesi ad assecondare l’erosione di sentimenti quali l’amore coniugale e l’amicizia, che la cultura occidentale sta trasformando dalle fondamenta”.
Eccovi l’incipit del dramma (la traduzione è di Ornella Trevisan). Buona lettura.
Il soggiorno della casa di Richard Rowan a Merrion, un suburbio di Dublino. Davanti, a destra, un caminetto protetto da un basso parafuoco. Sulla cappa, uno specchio in cornice dorata. Più indietro, sulla parete di destra, le porte a soffietto di accesso al salotto e alla cucina. Sulla parete di fondo, a destra, la porta dello studio e, alla sua sinistra, una credenza. Sopra la credenza il ritratto a pastello di un giovane uomo. Più a sinistra, porte a vetri a doppio battente che si aprono sul giardino. Sulla parete di sinistra una finestra che guarda sulla strada, e in primo piano, la porta che accede alla sala e al piano superiore della casa. Tra le finestre e la porta, un piccolo scrittoio accostato alla parete con accanto una sedia di vimini. Al centro della stanza un tavolo rotondo e attorno ad esso sedie foderate di velluto verde spento. Davanti, a destra, un tavolino più piccolo con un servizio da fumo. Accanto ad esso, una poltrona e un divano. Stuoini di cocco davanti al caminetto, lungo il divano e davanti alle porte. Il pavimento è in legno, scolorito.