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Credere comunque nell’uomo, fidando in Dio

Recensione di “Il Dottor Zivago” di Boris Pasternak

recensione Boris Pasternak, Il Dottor Zivago, Feltrinelli
Boris Pasternak, Il Dottor Zivago, Feltrinelli

Due dimensioni, e altrettanti linguaggi, in apparenza in contrasto tra loro, si sovrappongono ne Il dottor Zivago, unico romanzo di Boris Pasternak, ferocemente avversato in patria ma che valse al suo autore, nel 1958, il premio Nobel per la letteratura;

da una parte la costruzione di un ampio e densissimo orizzonte temporale, che copre eventi di eccezionale portata (dai falliti rivolgimenti proletari del 1905 allo scoppio del primo conflitto mondiale e allo spartiacque della rivoluzione d’ottobre; dai massacri fratricidi della guerra civile fino alla tragedia collettiva scatenata dai nazisti, all’invasione tedesca della Russia e alla successiva, rovinosa ritirata delle truppe del führer), declinati con la scarna puntualità del cronista, dall’altra le intime confessioni dello scrittore, il riflesso cristallino della sua visione del mondo incarnata nelle prese di posizione dei suoi personaggi, nel complesso universo morale dei suoi fragili eroi.

La realtà storica che dà nutrimento alla narrazione di Pasternak è allo stesso tempo un preciso riferimento – cronologico, sociale, politico e culturale – e uno sfondo nebuloso, verrebbe quasi da dire inessenziale se paragonato alle travolgenti vicissitudini dei singoli; nella studiata illusione di un intreccio di estrema semplicità (la tormentata storia d’amore tra Jurij Zivago, medico e poeta, e Larisa Fëdorovna Guichard, figlia di una famiglia europea un tempo facoltosa), Boris Pasternak offre al lettore una chiave di interpretazione del proprio tempo (che tuttavia ha l’ambizione di guardare all’eterno e all’universale, all’uomo nella sua essenzialità, prescindendo dalle condizioni materiali specifiche, comunque destinate a cambiare) che ha il proprio fondamento in un’etica battezzata nella carità cristiana e in un umanesimo limpido e autentico, abbracciato con forza di fede e vissuto con una radicalità che non conosce né ammette compromessi. Ed è proprio nei passaggi in cui l’autore svela se stesso che il romanzo cessa di essere semplicemente una “storia raccontata” per divenir espressione del fatto stesso di esistere, della responsabilità della vita, della sua fatica e del suo senso, sospeso tra speranza e tragedia. Alle tenebre che da ogni parte circondano gli esseri umani, Pasternak oppone la pacata fermezza di una razionalità vivificata dalla compassione e l’ostinazione commossa di chi ha scelto la fratellanza con il prossimo, e da questa posizione non solo critica, ma rifiuta completamente le logiche perverse della guerra prima e della “rivoluzione dal basso” poi.

“Penso che se la belva che dorme nell’uomo si potesse fermare con una minaccia”, scrive Pasternak con un coraggio, una profondità di sentimenti e un’onesta intellettuale che hanno pochi eguali nella storia della letteratura, “la minaccia della prigione o del castigo d’oltretomba, poco importa quale, l’emblema più alto dell’umanità sarebbe stato un domatore da circo con la frusta, e non un profeta che ha sacrificato se stesso. Ma la questione sta in questo, che, per secoli, non il bastone ma una musica ha posto l’uomo al di sopra della bestia e l’ha portato in alto: una musica, l’irresistibile forza della verità disarmata, il potere d’attrazione del suo esempio. Finora si riteneva che la cosa essenziale del Vangelo fossero le massime e le regole morali contenute nei comandamenti, mentre per me la cosa principale è che Cristo parla con parabole tratte dalla vita d’ogni giorno, spiegando la verità al lume dell’esistenza quotidiana. Alla base di questo sta l’idea che i legami fra i mortali sono immortali e che la vita è simbolica perché ha un significato”. E ancora (e questa volta è Lara a parlare): “Tu forse ricordi meglio di me come tutto, in un momento, abbia cominciato ad andare in disfacimento: il funzionamento dei treni, il rifornimento delle città, le basi dell’armonia familiare, i fondamenti morali della coscienza […]. Allora sulla terra russa venne la menzogna. Il male peggiore, la radice del male futuro fu la perdita della fiducia nel valore della propria opinione. Si credette che il tempo in cui si seguivano le suggestioni del senso morale fosse passato, che bisognasse cantare in coro e vivere di concetti altrui, imposti a tutti. Cominciò a estendersi il dominio della frase, prima in veste monarchica, poi rivoluzionaria. Questo traviamento della società coinvolse tutto, contagiò tutto”.

Forse nessuna critica dell’autoritarismo e del pensiero unico, pur poggiando su basi teoriche quasi inesistenti, ha saputo colpire con così letale precisione il proprio bersaglio, e probabilmente è per questa ragione che il potere sovietico contrastò quest’opera con ogni mezzo a sua disposizione, almeno finché non fu costretto a capitolare di fronte all’“irresistibile forza della verità disarmata”, che ha fatto di questo lavoro un classico immortale. Leggete Il dottor Zivago, non lo dimenticherete.

Eccovi l’inizio del romanzo, buona lettura (la traduzione è di Pietro Zveteremich. Le poesie di Zivago in fondo al volume sono state tradotte da Mario Socrate).

Andavano e sempre camminando cantavano eterna memoria, e a ogni pausa era come se lo scalpiccio, i cavalli, le folate di vento seguitassero quel canto. I passanti facevano largo al corteo, contavano le corone, si segnavano. I curiosi, mescolandosi alla fila, chiedevano: “Chi è il morto?” la risposta era “Zivago”. “Ah! allora si capisce”. “Ma non lui. La moglie”. “È lo stesso. Dio l’abbia in gloria. Gran bel funerale”. Scoccarono gli ultimi minuti, scanditi, irrevocabili. “La terra del Signore e la sua creazione, l’universo e ogni cosa vivente”. Il prete nel gesto della benedizione getto un pugno di terra su Màrija Nikolàevna. Fu intonato “Con gli spiriti giusti”. Poi tutto prese un ritmo spaventoso. La bara fu chiusa, inchiodata, calata nella fossa. Tambureggiò la pioggia delle palate di terra, rovesciata in fretta, con quattro vanghe, sulla cassa, finché non si formò un piccolo tumulo. Sopra vi salì un ragazzo di dieci anni. Soltanto quello stato d’inebetito torpore, che di solito prende alla fine d’ogni impotente funerale, poté creare l’impressione che il bambino volesse tenere un discorso sulla tomba della madre. 

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