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Una comprensione che cerca la perfezione

Recensione di “Herzog” di Saul Bellow

Saul Bellow, Herzog, Mondadori
Saul Bellow, Herzog, Mondadori

Paradigma del fallimento (o se si vuole della vita stessa, e della radicale impossibilità di ricavarne soddisfazione, appagamento), Moses Elkanah Herzog, protagonista del romanzo di Saul Bellow Herzog, pubblicato nel 1964 e vincitore, l’anno seguente, del prestigioso National Book Award, è un patetico re nudo, un eroe dei tempi moderni che di eroico non ha nulla e trascorre il proprio tempo consumandosi in rimpianti e in rivendicazioni tanto accese quanto sterili.


La sua solitudine, in massima parte frutto di scelte sbagliate – due matrimoni falliti alle spalle e altrettanti figli ai quali non riesce (o non vuole, o forse entrambe le cose) a fare da padre – diviene oggetto di una febbrile riflessione personale e in qualche modo assume carattere di universalità. Sconfitto da se stesso, Herzog, preda di un lucido delirio che egli per primo alimenta, si fa specchio dei mali del mondo, cassa di risonanza di ogni ingiustizia, strumento di denuncia di storture, oppressioni e violenze, e sfoga la sua impotenza scrivendo lettere (che mai spedisce) ai destinatari più disparati, alcuni dei quali ancora in vita, altri invece già morti da tempo.

Scrittore compulsivo e nevrotico, alter ego bizzarro, perfido, caricaturale ma essenzialmente veritiero, sincero dell’autore, Herzog si muove lungo l’accidentata strada della letteratura armato soltanto dell’istintiva saggezza dell’uomo di cultura, protetto unicamente dal mantello logoro ma ancora robusto del sapere. Orgoglioso della propria sbandierata follia – “Se sono matto, per me va benissimo”, dichiara al principio del romanzo – che lo rende unico agli occhi del prossimo, quest’uomo non più giovane, maltrattato in egual misura da se stesso e dalla vita, spinto, anzi “sopraffatto dal bisogno di spiegare, di mettere in chiaro, di giustificare, di collocare in prospettiva, di fare ammenda”, affronta alla luce di un tormentato illuminismo umanista, di un razionalismo dolce, il cui scopo non è “una comprensione perfetta, che è cartesiana, ma una comprensione che cerca la perfezione, che è ebrea”, temi che toccano il senso ultimo dell’esistenza di ogni uomo. Il mistero doloroso e sublime dell’amore, che Herzog, come un novello Sisifo spogliato di qualsiasi tragica bellezza, sfiora senza mai afferrare davvero, lo scarto incolmabile tra la metafisica compiutezza di un dettato etico e le spaventose lacune della sua applicazione pratica – “Gentile dottor Bhave […] ho sempre molto desiderato condurre una vita morale. Ma non sapevo da dove cominciare. Uno non può mica mettersi a fare l’utopista. Sarebbe come accrescere la già grande difficoltà di sapere quali sono davvero i nostri doveri. Tuttavia, se riuscisse a persuadere i grandi latifondisti a dare un po’ della loro terra ai contadini poveri…” – la ricerca di Dio, e di contro la minuziosa interpretazione scientifica di tutte le cose, dalle più grandi alle infinitamente piccole…

La magistrale prosa di Bellow procede sicura fino al centro del labirinto mentale e spirituale di un uomo che racconta se stesso nel disordinato affanno del flusso di coscienza; si appropria del tempo dilatandolo e contraendolo senza sosta, e lasciando che sia l’anima di Herzog a dare sostanza alle ore; arde violenta d’ira e d’eccitazione per poi ridursi d’improvviso a crepuscolare fiammella; sussurra di mestizia e rimpianto e immediatamente dopo vibra dell’indignazione dell’invettiva e del j’accuse; e nel respiro irregolare eppure miracolosamente armonioso di questa scrittura splendida e implacabile, nel palpitare grottesco di una realtà nella quale sembra esserci spazio soltanto per il caos, il grande scrittore americano narra, con lucida pietà, di miserie e splendori, di risa irrefrenabili e inconsolabili pianti, opposti lungo i quali scivola il cammino di un singolo uomo prigioniero di una lotta impari con la propria vita.

Herzog è un romanzo magnifico, un’opera meravigliosa per ricchezza stilistica e profondità d’analisi, ed è senza dubbio alcuno una delle opere letterarie più significative del Novecento.

Eccovi l’incipit (l’ottima traduzione, edizione Mondadori, collana Oscar Classici Moderni, è di Letizia Ciotti Miller). Buona lettura.

Se sono matto, per me va benissimo, pensò Moses Herzog. C’era della gente che pensava che fosse toccato, e per qualche tempo persino lui l’aveva dubitato. Ma adesso, benché continuasse a comportarsi in maniera un po’ stramba, si sentiva piano di fiducia, allegro, lucido e forte. Gli pareva d’essere stregato, e scriveva lettera alla gente più impensata. Era talmente infatuato da quella corrispondenza, che dalla fine di giugno, dovunque andasse, si trascinava dietro una valigia piena di carte. Se l’era portata, quella valigia, da New York a Martha’s Vineyard. Ma da Martha’s Vineyard era riscappato indietro subito; due giorni dopo aveva preso l’aereo per Chicago, e da Chicago era filato in un paesino del Massachusetts occidentale. Lì, nascosto in mezzo alla campagna, scriveva a più non posso, freneticamente, ai giornali, agli uomini pubblici, ad amici e parenti e finì per scrivere pure ai morti, prima ai suoi morti e poi anche ai morti famosi.

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