Recensione di “I ragazzi del massacro” di Giorgio Scerbanenco
“La signorina Matilde Crescenzaghi fu Michele e Ada Pirelli, nubile, insegnava alla scuola serale Andrea e Maria Fustagni a una classe mista di ragazzi dai 13 ai vent’anni, la maggior parte dei quali erano stati in riformatorio, o avevano il padre alcolizzato o la madre dedita al meretricio, vi erano diversi tubercolosi e alcuni eredoluetici. Meglio sarebbe stato che la classe fosse stata tenuta da un sergente maggiore della legione straniera, e non da lei, fragile, delicata signorina della piccola borghesia dell’alta Italia”. Comincia così, con la presenza terribile e insensata della morte, di una morte violenta dispensata con intollerabile ferocia, I ragazzi del massacro, probabilmente il più cupo e amaro tra i romanzi gialli di Giorgio Scerbanenco.
Sullo sfondo grigio e freddo di una Milano sconfitta, disillusa e stanca, il medico-poliziotto Duca Lamberti indaga sull’omicidio di una giovane docente di una scuola serale non lontana da piazzale Loreto: i suoi assassini, a quanto sembra, sono gli allievi, belve del tutto prive di pietà che prima di finirla si sono accaniti su di lei seviziandola, torturandola, brutalizzandola. Con un linguaggio duro, spigoloso, di sconvolgente attualità e che all’asciutta concretezza del resoconto di cronaca alterna il respiro ampio dell’interrogativo morale, della riflessione tormentata sulla necessità della norma di giustizia e sul senso e la misura della sua applicazione – “In un interrogatorio, quello che perde regolarmente è l’interrogante, perché – a meno che non si adoperi la forza fisica – l’interrogato cammina placido sulle bugie e le invenzioni e la legge non può fargli nulla”; e ancora, “A che serve arrestare un mostro? A che serve punirlo? A che serve ucciderlo? E a che serve che viva?” – Scerbanenco racconta una storia sordida di esistenze alla deriva; la sua Milano, così riconoscibile (bella persino) nel preciso disegno di vie e piazze, è un orizzonte che si stempera nell’illusorietà del miraggio, un luogo anonimo, lontano da coloro che lo abitano, ciascuno abbandonato nel proprio personale inferno. In questa città d’ombra e nebbia e pioggia e pianto crescono i fiori malati della disperazione e della vendetta, e cancerose eredità di rabbia e desiderio di rivalsa infettano madri, padri e figli come subdole malattie veneree. Alla cieca ferinità di uomini e donne esclusivamente asserviti agli imperativi biologici della vita, Duca Lamberti si sforza di opporre la propria umanità rude e autentica, la sua limpida capacità d’amore e il suo odio implacabile per ogni viltà, ogni prepotenza, ogni miseria, ogni vergogna del corpo e dell’anima; e più di tutto la sua laica pietà, che resiste e ostinata germoglia oltre l’orrore e il disgusto.
Fedele a un severo realismo, Scerbanenco non presenta il suo protagonista come un eroe; Duca Lamberti è soltanto un uomo, proprio come solo una donna è la sua compagna Livia Ussaro; la loro debolezza tuttavia è incorrotta, e gli errori compiuti conservano una sorta di primordiale innocenza, l’impronta di una volontà pura, di un disinteresse sincero, maturo e consapevole; Scerbanenco racconta il male, il suo farsi, la sua “banalità” sterminatrice con una lucidità che impressiona, spaventa e inquieta; egli sottomette la sua maestria narrativa all’urgenza di spiegare, di trovare un perché al dolore, una qualche ragione per il suo insensato esplodere, e pur sapendo (come uomo più ancora che come scrittore) che il suo continuo interrogarsi è destinato a restare senza risposta, egli non rinuncia a domandare, a cercare. Non esiste, nei gialli di Scerbanenco, quella brezza leggera di metafisico ottimismo che si respira in un qualsiasi classico di questo genere letterario (si pensi per esempio agli affascinanti romanzi di Agatha Christie); qui la verità non salva, non spiega, non offre riparo né consolazione o sicurezza, si limita a mettere ordine in ciò che è già accaduto, a illuminare un Grand Guignol che molti vorrebbero evitare di guardare, eppure è la sola cosa che conti davvero, perché è di verità che ha sete l’uomo.
I ragazzi del massacro è un romanzo teso e tagliente, un viaggio travolgente nel cuore di un incubo spaventoso e ordinario; è un giallo denso, potente e minaccioso come un cumulo di nubi temporalesche. È un libro impossibile da evitare e da dimenticare.
Eccovi l’inizio. Buona lettura.
«È morta cinque minuti fa,» disse la suora.
Duca Lamberti guardò oltre la sua spalla, verso il rozzo, appassionato viso di Mascaranti, e non disse nulla.
«La vuol vedere lo stesso?», disse la suora. Sapeva che erano i poliziotti venuti per interrogare la maestrina, ma interrogare una morta è un po’ difficile.
«Sì,» disse Duca.
Avevano già levato le coperte, lei stava in un antiquato, patetico baby-doll giallo, già stecchita, il viso alterato da una smorfia di sofferenza e dall’ematoma sotto l’occhio destro, l’armonia della fronte alterata anch’essa dal grosso ciuffo di capelli che bestialmente le avevano strappato, creando un’innaturale, tragicomica calvizie, tutto il torace rigonfio, arrotondato a botte per l’ingessatura, fatta in fretta, tanto per arginare lo strazio di tutte quelle costole rotte, erano tante, se non tutte, e comunque il chirurgo non aveva avuto il tempo di contarle. Ed era già arrivato l’omino con la bara a rotelle, come la chiamavano, che era un qualunque lettino a ruote, soltanto che invece delle lenzuola c’era un telone impermeabile grigio, per condurla giù, in frigo, ad aspettare l’autorizzazione per l’autopsia e c’era anche l’agente in divisa che riconobbe Duca e portò timidamente la mano alla visiera nel saluto. Era giovanissimo e disse ingenuamente, con qualche cosa di commosso nella voce che poteva sembrare insolito in un poliziotto: «È morta».