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Il vile patto d’affari tra mafia e politica

Recensione di “A ciascuno il suo” di Leonardo Sciascia

Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo, Adelphi
Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo, Adelphi

Elemento cardine di ogni intreccio giallo, la morte, nei romanzi di Leonardo Sciascia, proprio nel momento in cui compare cessa di essere un semplice (ancorché fondamentale) espediente letterario per assumere la ben più significativa valenza di simbolo, di trasparente metafora, di strumento di denuncia. Per il grande scrittore siciliano, infatti, l’omicidio è l’ultimo atto di un dramma che ha origini lontane, il precario epilogo di una storia innominabile e sordida, tragica e grottesca che in qualche modo riguarda un intero Paese, il suo impianto etico, politico e sociale.


Nella circolarità d’intreccio cui il fatto di sangue, suo malgrado, dà inizio (l’assassinio, commesso nel tentativo di nascondere una volta per tutte una verità scomoda, innesca un’indagine il cui scopo è fare luce sul perché del delitto, e dunque scoprire proprio quella verità che si è cercato di occultare) la vicenda ha modo di svilupparsi, complicandosi all’inizio per poi, poco alla volta, indizio dopo indizio, chiarirsi del tutto; in ciascuno di questi passaggi, nelle varie fasi dell’investigazione, Sciascia lavora su un doppio binario; la sua prosa squisitamente nitida, di rara eleganza ed eccezionale spessore, riesce nel medesimo tempo a dare pieno risalto all’architettura narrativa e alle conturbanti atmosfere del mystery e a radicare il racconto nella buia realtà di un’Italia malata, il cui ulcerato corpo sociale, prigioniero nelle sabbie mobili di un eterno presente, soffoca nel malaffare, nella corruzione, nel vile patto d’affari stretto tra politica e criminalità organizzata. I gialli di Leonardo Sciascia non sono soltanto gioielli letterari, libri di assoluta perfezione stilistica e di notevolissima profondità; sono testimonianze, j’accuse puntuali e ineludibili. Lo è il suo riconosciuto capolavoro, Il giorno della civetta (di cui ho già scritto in questo blog), che resta ancora oggi il più illuminante romanzo sulla mafia (sulla cultura mafiosa e sulla sua stupefacente, e allarmante, capacità di penetrazione) mai scritto in Italia, così come lo è il bellissimo A ciascuno il suo, anche se in questo caso l’attenzione dell’autore si sposta maggiormente sul versante della politica. Tutto parte da un duplice omicidio: in un paesino della Sicilia il farmacista Manno e il medico, il dottor Roscio, vengono uccisi al termine di una giornata che i due hanno trascorso cacciando. Il caso si rivela fin dal principio difficile, e anche imbarazzante, spinoso, considerata l’importanza sociale delle vittime; un movente tuttavia sembra esserci; il farmacista, infatti, poco prima di morire aveva ricevuto una minacciosa lettera anonima: “Questa lettera è la tua condanna a morte”, era scritto, “per quello che hai fatto morirai”.

Ad avere la giusta intuizione, però, non è la polizia, ma un docente, Paolo Laurana, insegnante di italiano e storia nel liceo classico del capoluogo; egli ricostruisce l’intera vicenda partendo da un dettaglio (una parola latina, unicuique, presente sul rovescio del foglio contenente la lettera minatoria) e comprende che l’assassinio di Manno è stato un astuto depistaggio, che non era lui il bersaglio ma l’amico Roscio; partendo da questa nuova prospettiva concentra i suoi sospetti su una persona, l’avvocato Rosello, cugino della moglie di Roscio e soprattutto figura politica di spicco, un notabile “che corrompe, che intrallazza, che ruba”. È nel personaggio di Rosello, nel disegno del suo carattere, nel ritratto amaro, grottesco ma autentico (e tragicamente attuale) che Sciascia mette in bocca al parroco del paese che il romanzo tocca il suo punto più alto; perché è per proteggere gli innominabili affari di quest’uomo (gestiti insieme a potenti amici romani) che in un anonimo borgo della Sicilia – terra lontana eppure vicinissima al corrotto potere capitolino – è stato versato sangue innocente.

“Lei ha un’idea precisa”, chiede il parroco a Laurana, “di quel che Rosello è? Dico nei suoi intrallazzi, nei suoi redditi, nella sua pubblica e occulta potenza?” E all’ingenua ignoranza del professore, così replica: “Rosello fa parte del consiglio di amministrazione della Furaris, cinquecentomila lire al mese, e consulente tecnico della stessa Furaris, un paio di milioni all’anno; consigliere della banca Trinacria, un altro paio di milioni; membro del comitato esecutivo della Vesceris, cinquecentomila al mese; presidente di una società per l’estrazione di marmi pregiati, finanziata dalla Furaris e dalla Trinacria, che opera, come tutti sanno, in una zona dove un pezzo di marmo pregiato non si troverebbe nemmeno se ce lo portassero apposta, perché subito scomparirebbe nella sabbia; consigliere provinciale, e questa è una carica che assolve, dal lato finanziario, in pura perdita, i gettoni di presenza bastandogli appena per le mance agli uscieri; ma dal lato del prestigio… Lei sa che è stato lui, in consiglio provinciale, a spostare i consiglieri del suo partito dall’alleanza coi fascisti a quella coi socialisti: una delle prima operazioni che in questo senso siano state fatte in Italia… Gode perciò della stima dei socialisti; ed avrà anche quella dei comunisti se, profilandosi un altro spostamento a sinistra del suo partito, riuscirà anche stavolta ad anticipare i tempi… Posso dirle, anzi, che i comunisti della provincia già occhieggiano verso di lui con timida speranza… E veniamo ora ai suoi affari privati, che io conosco solo in parte: aree edificabili, nel capoluogo e, si dice, anche a Palermo; un paio di società edilizie in mano; una tipografia che costantemente lavora per uffici ed enti pubblici; una società di trasporti… Poi ci sono più oscuri affari: e qui è pericoloso, anche per pura e disinteressata curiosità, tentare di annusare… Le dico soltanto questo: se mi confidassero che passa dalle sue mani anche la tratta delle bianche, ci crederei senza che me lo giurassero”.

Nei raffinati toni di un giallo che a tratti cerca rifugio dalla propria disperazione in un umorismo sottile e tanto arguto quanto amaro, Sciascia racconta la miseria materiale e l’inferno etico del nostro Paese; e la sua analisi è lucida, spietata, inconfutabile.

Eccovi l’inizio del romanzo. Buona lettura.

La lettera arrivò con la distribuzione del pomeriggio. Il postino posò prima sul banco, come al solito, il fascio versicolore delle stampe pubblicitarie; poi con precauzione, quasi ci fosse il pericolo di vederla esplodere, la lettera: busta gialla, indirizzo a stampa su un rettangolino bianco incollato alla busta.

“Questa lettera non mi piace” disse il postino.

Il farmacista levò gli occhi dal giornale, si tolse gli occhiali; domandò “Che c’è?” seccato e incuriosito.

“Dico che questa lettera non mi piace.” Sul marmo del banco la spinse con l’indice, lentamente, verso il farmacista. Senza toccarla il farmacista si chinò a guardarla; poi si sollevò, si rimise gli occhiali, tornò a guardarla.

“Perché non ti piace?”

“È stata impostata qui, stanotte o stamattina presto; e l’indirizzo è ritagliato da un foglio intestato della farmacia.”

“Già” constatò il farmacista: e fissò il postino, imbarazzato e inquieto, come aspettando una spiegazione o una decisione.

“È una lettera anonima” disse il postino.

“Una lettera anonima fece eco il farmacista. Non l’aveva ancora toccata, ma già la lettera squarciava la sua vita domestica, calava come un lampo ad incenerire una donna non bella, un po’ sfiorita, un po’ sciatta, che in cucina stava preparando il capretto da mettere in forno per la cena.

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