Recensione de “Il giro di vite” di Henry James
Riunite in una vecchia casa alla vigilia di Natale, alcune persone ascoltano rapite una storia di puro raccapriccio. In una classica atmosfera da novella gotica, pervasa da una paura sottile e strisciante e resa elettrica da un senso di inquietudine cresciuto di pari passo allo svolgersi del racconto, ecco giungere, improvvisa, un’osservazione sconvolgente: la vicenda appena narrata aveva per protagonista un bambino, testimone di un’apparizione soprannaturale.
Ed è proprio questa specifica circostanza, convengono i presenti dopo un breve confronto, a rendere quasi insopportabile quel che hanno udito. Un bambino, osserva qualcuno, conferisce senz’altro un tocco particolare, un ulteriore “giro di vite” a un intreccio di per sé spaventoso, ma cosa accadrebbe se i bambini fossero addirittura due? È con questa domanda, ineludibile nella sua essenziale semplicità e così ricca di implicazioni nella sua vertiginosa chiarezza, che si apre Il giro di vite di Henry James, con ogni probabilità il suo lavoro letterario più celebre.
In quest’opera complessa e labirintica, che senza sosta svela e nasconde se stessa e dove ogni cosa, a partire dall’ambientazione – una magnifica, isolata dimora di campagna – sembra il parto di una mente sovraeccitata, lo scrittore americano da una parte si affida a una scrittura pulita, elegante e sobria, ricca di dettagli e dal respiro ampio e quieto, che richiama la solida tradizione letteraria ottocentesca, dall’altra lascia che sia la vicenda stessa, raccontata per via indiretta attraverso la lettura di un manoscritto che è insieme diario, confessione e testimonianza, a dettare il ritmo del proprio svolgimento e a sconvolgere l’ordine (e persino la rispettabilità borghese) della prosa precipitandola nel trauma scatenato dal verificarsi di un evento impossibile (l’apparizione di un fantasma), minandone le certezze nel progressivo insinuarsi di un atroce sospetto, corrodendone l’intrinseca razionalità nel continuo rovello del dubbio e nel terrificante emergere della spettrale ombra della pazzia.
James si muove con seducente maestria lungo il filo sottilissimo che separa la realtà dall’immaginazione, il vero dal suo opposto, ciò che è concreto, conoscibile dai sensi, identificabile, da tutto ciò che non lo è, e non perde occasione per rimescolare le carte, confondere, sovrapporre i due piani. Fin dal principio del racconto, la cui protagonista è una giovane istitutrice, miss Giddens, il sogno fa la sua comparsa, e subito i contorni del reale sfumano. La ragazza risponde a un annuncio di lavoro: dovrà prendersi cura dei due nipoti (un maschio di nove anni e la sorella di otto) di un ricco uomo d’affari di Londra. L’incarico non è semplice, prevede il suo trasferimento in campagna, dove i bambini vivono, e soprattutto è soggetto a una condizione tanto singolare quanto ferrea: per nessuna ragione l’istitutrice dovrà disturbare il suo datore di lavoro; qualsiasi problema dovesse sorgere, toccherà a lei, e alle persone di servizio impiegate nella casa, risolverlo; l’uomo non dovrà mai essere mandato a chiamare. Malgrado la singolarità della richiesta, miss Giddens accetta, conquistata dai modi e dalla figura del gentiluomo, o meglio ingannata dalla propria inesperienza del mondo e del prossimo. “Questo potenziale datore di lavoro”, scrive James, “risultò essere un gentiluomo, uno scapolo nel fiore degli anni, una figura quale mai era comparsa, salvo in sogno o in un vecchio romanzo, a una trepidante e ansiosa fanciulla proveniente da un vicariato dello Hampshire. È facile individuare il tipo; fortunatamente non scompare mai”.
Abbagliata da un uomo che sembra uscito da un romanzo o dalle romantiche fantasticherie che popolano cuore e mente di ogni donna, miss Giddens comincia la propria avventura e poco alla volta si ritrova coinvolta in qualcosa di inspiegabile, nell’ordinaria routine di una vita di famiglia che sembra celare terrificanti segreti e che d’improvviso vede squarciata la propria normalità dal verificarsi di assurde apparizioni. Decisa a proteggere i bambini da questi fenomeni, dapprima l’istitutrice cerca da sola di comprendere quel che sta accadendo, ma ben presto si rende conto che quel che succede in quella casa, qualsiasi cosa sia (una maledizione? una colpa innominabile? un ricordo da tener sepolto a ogni costo?), ha a che fare con i piccoli, che anch’essi sono coinvolti nell’orrore. Ma ogni passo in avanti nella soluzione dell’enigma è nel medesimo tempo anche un passo indietro; niente infatti assicura miss Giddes che ciò cui assiste non accada soltanto nella sua mente e che i piccoli non siano altro due poveri innocenti perseguitati dalla sua follia. Eppure le apparizioni sono così reali, e il comportamento dei bambini così inquietante…
Il continuo cambio di prospettiva de Il giro di vite rende la trama una materia viva, che si ha l’impressione di plasmare, di modificare leggendo e che tuttavia sfugge a qualsiasi definitiva soluzione; a spiragli di chiarezza James fa seguire un immediato infittirsi del mistero, a ogni rivelazione oppone un nuovo enigma da risolvere, un ulteriore ostacolo da superare, finché il limite di quel che l’intelletto umano può spiegare non viene raggiunto e ogni cosa svanisce nell’abisso che si spalanca oltre i confini dell’esprimibile.
Eccovi l’inizio del racconto (la traduzione, per i tipi della Viviani Editore, è di Giuliana Schiavi).
La storia ci aveva tenuti attorno al fuoco con il fiato sospeso, ma, fatta salva l’ovvia osservazione che essa fosse raccapricciante come sostanzialmente dovrebbe esserlo un singolare racconto in una vecchia casa alla vigilia di Natale, non ricordo venisse fatto alcun commento fino a che accidentalmente qualcuno non lo definì come l’unico caso di sua conoscenza in cui una tale afflizione fosse toccata a un bambino. Il caso, conviene che ne accenni, era quello di una apparizione avvenuta in una vecchia casa del tutto simile a quella che ci vedeva riuniti per l’occasione: una comparsa, spaventosa, a un bambino che dormiva in stanza con la madre e che atterrito l’aveva svegliata non affinché ella dissipasse il suo terrore ma affinché ella stessa, prima di tranquillizzarlo fino a farlo riaddormentare, vedesse ciò che tanto lo aveva sconvolto. Fu questa osservazione a provocare da parte di Douglas, non subito, bensì in seguito durante la serata, una risposta che ebbe l’interessante conseguenza su cui richiamo l’attenzione. Qualcun altro raccontava una storia di scarso effetto e mi accorsi che egli non ascoltava. Lo presi come un segno che egli stesso avesse qualcosa da dirci e che dovessimo solo aspettare. Aspettammo a dire il vero due giorni; ma quella stessa sera, prima che il gruppo si dividesse, ci rivelò quello a cui stava pensando.
«Sono senz’altro d’accordo, per quanto riguarda lo spettro di Griffin, o qualunque cosa fosse, che il fatto che sia inizialmente apparso a un bambino, per giunta così piccolo, aggiunge un tocco particolare. Ma per quanto ne so non è il primo caso di questo affascinante tipo ad avere avuto per protagonista un bambino. Se il bambino conferisce all’effetto un ulteriore giro di vite, che cosa direste se i bambini fossero due…?».