Vai al contenuto
Home » Recensioni » Condannati a recitare una parte in commedia

Condannati a recitare una parte in commedia

Recensione di “l’eterno marito” di Fedor Dostoevskij

Fedor Dostoevskij, L'eterno marito, Garzanti
Fedor Dostoevskij, L’eterno marito, Garzanti

Pubblicato in due puntate sulla rivista Zarja nel 1870, due anni dopo l’uscita de L’idiota e mentre era in pieno svolgimento la stesura de I demoni, il romanzo breve L’eterno marito di Fedor Dostoevskij è un intenso dramma psicologico raccontato con i toni accesi di una farsa agrodolce; un intreccio di solitudini e silenzi, segreti e bugie che nel riflettere la coscienza inquieta e il tormentato mondo interiore di due uomini opposti per carattere e scelte di vita cerca di affrontare da un nuovo punto di vista quello che è il tema centrale di tutta la produzione del grande autore russo: la vita intima di ciascuno di noi, cuore di ogni nostra inconfessata brama, specchio del nostro io più autentico e terribile.


In una parola, quel che Fedor Dostoevskij ha battezzato con l’angosciante termine di sottosuolo e che Remo Cantoni, filosofo e autore di un importante saggio su Dostoevskij (Crisi dell’uomo: il pensiero di Dostoevskij) definisce come “il luogo segreto di tutte le nostre incoerenze e ambiguità, una specie di infrastruttura psichica esistente in ogni uomo e per lo più inesplorata. Mentre in superficie gli uomini sembrano unitari, equilibrati, armonici, l’esplorazione del loro sottosuolo  ce li rivela caotici, ambigui, pieni di ambivalenze che scandalizzano il nostro semplicistico intelletto […]. Sottosuolo significa coscienza di una disarmonia radicale tra ciò che è intimo e informe e ciò che ha smercio sociale, e questa disarmonia alimenta una perpetua e morbosa irritabilità, un costante senso di risentimento e di irrequietezza. Nel sottosuolo v’è il gusto della propria libera abiezione, perché è la sfera premorale in cui l’uomo non accetta nulla di obiettivo, di valido, la sfera prelogica dell’antinomia, della contraddizione non risolta e non inquadrata in nessuna legge, della incandescenza non ancora cristallizzata in una forma; è il senso capriccioso, arbitrario della libertà, la sfera del torbido concretum psichico ribelle all’astrattezza edificante del moralismo. Il sottosuolo è l’assenza di ogni legge o convenienza imposta dalla società e dal prossimo o persino da quei vincoli interiori che spesso la personalità si crea; è l’irrazionale, l’informe con tutta la sua caotica, incontrollata, cinica, risentita spontaneità”.

È proprio la comune appartenenza a questa buia “caverna dell’anima” a legare tra loro, seppur tra innumerevoli conflitti, traumatici allontanamenti e strazianti ricongiungimenti, i protagonisti del romanzo: da una parte il seduttore Velciàninov, non più giovane d’anni eppure ancora “un pezzo d’uomo alto e robusto, dai capelli d’un biondo chiaro e folti, senza un sol pelo grigio sul capo e nella barba biondiccia”, i cui modi spigliati e pieni di grazia dimostrano come fosse “pieno della più incrollabile, della più mondanamente sfrontata sicurezza di sé, le cui proporzioni forse egli stesso non sospettava, nonostante che fosse un uomo non solo intelligente, ma a volte persino assennato, quasi colto e di non dubbie doti”; dall’altra il grigio Pavel Pavlovic Trusotskij, l’eterno marito, incarnazione insieme patetica e ridicola di chi sembra avere un unico scopo nella vita, quello di prendere moglie, e “ammogliatosi, immediatamente si trasforma in un accessorio della moglie, perfino nel caso in cui gli accadesse di avere un suo proprio, incontestabile carattere. Principale connotato di un tal marito è il noto ornamento. Non essere cornuto egli non può, esattamente come il sole non può non risplendere; ma egli di questo non soltanto non sa mai nulla, ma non può mai venirlo a sapere per le leggi stesse della natura”.

Strumento del sostanziale fallimento di Trusotskij, Velciàninov (un tempo amante della moglie dell’uomo, ora morta di tisi, e padre di una bambina mai riconosciuta) è a sua volta un vinto; infelice, ipocondriaco, tormentato, quest’uomo trova nel proprio avversario, consumato da una sorta di malata ammirazione nei suoi confronti ma anche da una straripante ansia di vendetta, la misura dell’immorale condotta tenuta fino a quel momento e perfino una confusa coscienza cui rapportarsi; nella descrizione del loro rapporto, Dostoevskij non rinuncia alla severità della prosa, al suo asciutto rigore stilistico, all’acutezza e alla puntualità della riflessione, ma stempera con vivacità sorprendente le tragiche vicende di questi “uomini senza qualità” nella comica (e viziosa) circolarità di un destino già scritto: la vicenda, infatti, termina nello stesso modo in cui era cominciata, con Trusotskij e Velciàninov, talmente incapaci di affrancarsi da se stessi da risultar caricature d’uomini, di nuovo nei panni dell’eterno marito e del gaudente uomo di mondo pronto a cogliere al volo le occasioni che la vita gli offre.

Eccovi l’incipit del romanzo. Buona lettura.

Venne l’estate, e Velciàninov, contro ogni attesa, restò a Pietroburgo. Il suo viaggio nel sud della Russia era andato a monte, e della causa neppur si prevedeva la fine. Questa causa – una lite per la proprietà – stava prendendo una pessima piega. Ancora tre mesi addietro aveva un aspetto tutt’altro che complicato, poco meno che incontroverso; ma, chissà come, improvvisamente tutto era mutato. “E in generale tutto ha preso a mutarsi in peggio!”: questa frase Velciàninov aveva cominciato a ripeterla tra sé con acredine e di frequente. Si valeva di un avvocato abile, caro, rinomato, e non lesinava i quattrini; ma, nella sua impazienza e diffidenza, aveva preso il vezzo di occuparsi della causa anche di persona: leggeva e scriveva fogli, che l’avvocato gli bocciava di continuo, correva per gli uffici giudiziari, assumeva informazioni e, probabilmente, guastava ogni cosa; almeno l’avvocato se ne lagnava e lo spingeva ad andare in villeggiatura. Ma lui neanche a partire per la villeggiatura si risolveva. La polvere, l’afa, le notti bianche pietroburghesi, che irritano i nervi: ecco ciò che si godeva a Pietroburgo. Il suo appartamento, da lui preso a pigione di recente, era dalle parti del Gran Teatro, e anch’esso non andava bene; “nulla andava bene”. La sua ipocondria cresceva ogni giorno più, ma all’ipocondria egli era incline già da tempo.

2 commenti su “Condannati a recitare una parte in commedia”

  1. Aleksej Ivanovič Vel’čaninov è un bell’uomo di quasi quarant’anni, alto e robusto, quasi colto e di indubbie doti intellettuali. E’ stato in passato un brillante conversatore, ammirato dalle donne, con occhi chiari, allegri e spensierati, che esprimevano limpidezza e bontà. Ora, invece, è un uomo in crisi, malato di ipocondria, e nei suoi occhi appaiono solo il cinismo dell’uomo non del tutto morale e ormai stanco, l’astuzia e l’ironia di una persona triste e sofferente.
    Dostoevskij non si limita a darci questa interessante descrizione del suo personaggio, ma ci fa vedere la sua crisi in atto. Da un po’ di tempo Vel’čaninov è sopraffatto dai ricordi di episodi lontani della sua vita passata, che si presentano ora alla sua mente come fatti delittuosi, carichi di rimprovero: insuccessi mondani, umiliazioni ricevute, debiti non pagati, il suo patrimonio scialacquato nel modo più stupido, certe offese recate ad altri… Gli torna in mente la figura completamente dimenticata di un funzionario, un bravo vecchietto, che egli aveva offeso molto tempo addietro e che, non riuscendo a rispondere all’offesa, era scoppiato in singhiozzi davanti a tutti. Ripensando adesso a quel poveraccio che singhiozzava e si copriva il viso con le mani, come un bambino, improvvisamente pare a Vel’čaninov di non averlo mai dimenticato. Allora quel pianto e quel coprirsi il viso con le mani gli erano parsi una cosa molto buffa, ora invece prova una grande pena. E Vel’čaninov pensa: “Qualcuno lassù mi manda questi maledetti ricordi come ‘lacrime di pentimento’ ”.
    Ho riassunto con una certa ampiezza le prime pagine del romanzo perché mi sembrano le migliori e le più umane. Ma ora comincia il racconto vero e proprio, che in sé è molto breve e lineare.
    Vel’čaninov passa l’estate a Pietroburgo. “Polvere, afa, le notti bianche pietroburghesi, che irritano i nervi, ecco quello che lo deliziava in città”. Egli non vuole andare da nessun’altra parte; pensa che Pietroburgo, con tutta la sua folla di gentucola egoista e meschina, sia proprio il paradiso per un ipocondriaco. Passeggiando per le strade della città, egli fa ripetuti incontri con un signore che porta un segno di lutto sul cappello e sembra fissarlo con insistenza. Vel’čaninov ne è turbato. Quando si presenta una insolita occasione di parlarsi, Vel’čaninov lo riconosce: è Pavel Pavelič Trusozkij. Nove anni prima, Vel’čaninov aveva abitato nella sua cittadina di provincia, aveva frequentato la sua casa ed era stato l’amante della moglie, Natalia Vasil’evna, morta da alcuni mesi. Il marito vedovo ora sa tutto, anche se non lo ammette subito; dice di essere venuto a Pietroburgo, portando con sé la figlia Lisa di otto anni, per chiedere una promozione, ma probabilmente per cercare proprio lui, Vel’čaninov. Gli incontri fra i due uomini si ripetono frequenti, si crea fra loro un rapporto torbido fatto di pena, di disprezzo e di ostilità. La bambina è in realtà figlia di Vel’čaninov. Quando questi se ne accorge, sente che la sua esistenza può cambiare, che Lisa diventerà lo scopo della sua vita. “Per che cosa son vissuto finora? Disordine e malinconia… ma adesso tutto è diverso, tutto è cambiato!”. Ma la bambina si ammala improvvisamente e muore. Vel’čanikov è annichilito. “Con l’affetto di Lisa si sarebbe purificata e riscattata tutta la mia vita precedente, fetida e inutile… avrei circondato di cure un essere puro e bello”. Gli incontri fra Vel’čaninov e Trusozkij vanno avanti per alcune settimane e, dopo che il vedovo tenta, con un atto inconsulto e inspiegabile, di uccidere l’amico-rivale, il loro torbido legame si scioglie e Trusozkij lascia Pietroburgo. Un episodio di rilievo in questa storia è il tentativo di Trusozkij di sposare una ragazza quindicenne, sesta figlia di otto ragazze. Trusozkij, benestante, ha il consenso del padre, modesto funzionario che non riesce a dare una dote a tutte le figlie, ma è odiato dalla ragazza. Perciò Trusozkij rinuncia. La conclusione del romanzo vede, due anni dopo, un nuovo incontro fra Vel’čaninov e Trusozkij. Questi si è risposato con una bella donna di provincia, che veste con cattivo gusto e che ha già un amante ed è sempre disponibile per altri. Ciò è inevitabile, perché Trusozkij appartiene a quella categoria di uomini la cui essenza consiste nell’essere “eterni mariti”, o, per meglio dire, nell’essere nella vita soltanto mariti e nient’altro. Un individuo come Trusozkij vive unicamente per ammogliarsi con donne come quelle che ha sposato e, una volta ammogliato, per trasformarsi in una appendice della moglie. “Egli non può non essere cornuto, così come il sole non può non risplendere”.
    La prima moglie, Natalia Vasil’evna, era una donna di ventotto anni dal fascino opprimente e Vel’čaninov si vergogna ora di aver potuto provare per lei una passione così sciocca. Eppure sembrava che Natalia Vasil’evna non avesse niente di ciò che occorre per attrarre e soggiogare. Non solo era tutt’altro che bella, ma forse era persino brutta, ma aveva un carattere deciso e prepotente. Le continue e innumerevoli infedeltà coniugali non le pesavano affatto sulla coscienza.
    ‘L’eterno marito’ è un breve romanzo che si legge d’un fiato: è incalzante e compatto. Dei difetti che spesso rendono Dostoevskij noioso e irritante, qui c’è solo qualche scoppio di risa improvviso e inopportuno (nell’Idiota c’era un’orgia di risate isteriche), e ci sono forse un paio di paginette di analisi un po’ troppo cerebrale. Ma il racconto corre veloce, gli episodi sono concretamente vissuti e non narrati attraverso la conversazione dei personaggi, i caratteri sono descritti con sicurezza e grande esperienza della vita, i dialoghi sono vivi e credibili, e la descrizione di alcune situazioni sociali (per es. la visita, in casa Zachlebinin, alla ragazzina quindicenne che ‘l’eterno marito’ vorrebbe sposare) è umoristica e divertente, anche se piena di tensione crudele. Dostoevskij ha una visione della vita inquieta, morbosa e infelice, e l’unica isoletta di spensieratezza nel romanzo è la famiglia dove Vel’čaninov porta la bambina, Lisa, per sottrarla ai maltrattamenti del falso padre. Questa famiglia, anch’essa con otto figli, tutti allegri e affettuosi, possiede in campagna una ricchissima villa di proprietà. La mamma, Klavdija Petrovna Pogol’zeva, trentasettenne, è per Vel’čaninov come una sorella, come una mamma. Suo marito, di cinquantacinque anni, consigliere segreto, è intelligente e astuto, ma è soprattutto un brav’uomo. Questa isoletta felice appare solo per un attimo e subito scompare nell’irrealtà: Vel’čaninov, nonostante vi sia amato, non ha alcuna voglia di andarci.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *