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L’impotente verità della confessione

Recensione di “Cattive intenzioni” di Karin Fossum

Karin Fossum, Cattive Intenzioni, Sperling & Kupfer
Karin Fossum, Cattive intenzioni, Sperling & Kupfer

Una pozza d’acqua che ricorda uno stagno, soffocata da pareti ripide, quasi a strampiombo; poco lontano, una casetta di villeggiatura in legno. È qui che tre ragazzi, tre amici di lunga data, il carismatco e vincente Axel Frimann, Philip Reilly, ombroso, inquieto e tossicodipendente e il depresso e ansioso Jon Moreno, prossimo a un crollo psicotico e in cura presso un centro specialistico, si ritrovano per un fine settimana. Ed è qui, alla mezzanotte del tredici settembre, che accade la tragedia, allo stesso tempo principio e fine di Cattive intenzioni, intensissimo thriller psicologico di Karin Fossum.


Nervosa, fitta, palpitante, la prosa della scrittrice norvegese conduce immediatamente il lettore nel cuore della vicenda e disegna i protagonisti del romanzo soffermandosi quasi esclusivamente sui tratti salienti dei rispettivi caratteri, costruendoli per così dire dall’interno, perché l’intero impianto narrativo si snoda lungo gli accidentati, pericolosi e apparentemente invisibili percorsi della menzogna, dei sensi di colpa, dei rimorsi e della continuamente rinnovata conoscenza di sé, dell’inesplicabile, angoscioso mistero rappresentato da quel che siamo veramente. Tutto succede quasi d’improvviso; i tre compagni decidono di fare un’escursione in barca, e quando si ritrovano al centro di quel raccolto bacino idrico noto con il sinistro appellativo di “laghetto dell’Acqua Morta”, uno di loro, Jon Moreno, con addosso vestiti pesanti e zaino, si getta in acqua. Nessuno degli altri due si tuffa per cercare di salvarlo e in una manciata di minuti il ragazzo muore annegato. Ad Axel e Philip, allora, non resta che inventarsi una storia, trovare qualcosa di credibile da raccontare alla polizia, un possibile svolgimento dei fatti che li metta al riparo dall’accusa di omissione di soccorso, o peggio di istigazione al suicidio, perché è chiaro che Moreno ha deciso di suicidarsi e che loro non hanno fatto nulla per impedirglielo. Ma per quale ragione Moreno si è ucciso? E cosa ha spinto i suoi amici a comportarsi in quel modo? E che cosa gli impedisce di raccontare semplicemente la verità? Interrogativi, dilemmi che la Fossum declina nelle cadenze classiche del giallo raccontando l’approccio al caso da parte dell’ispettore Konrad Sejer e del suo giovane e brillante attendente Jakob Skarre, incaricati delle indagini, e insieme svolge come un drammatico naufragio etico e umano, che inesorabile si consuma tra vertigini di terrore e labirintiche ricostruzioni autoassolutorie.

In un gioco di chiaroscuri magistralmente condotto, l’autrice si limita a indicare l’esistenza di un segreto, di un trauma, di una tragedia che lega tra loro i destini di Axel, Philip e Jon, poi lascia che sia la verità a manifestarsi; quella fredda, “ufficiale” della giustizia, rigorosa ma impersonale, e in ultima analisi parziale e insufficiente perché lontana dalle vittime come dai carnefici, e quella spietata e stupida dei responsabili, di chi un giorno si è trovato ad affrontare una situazione di inimmaginabile gravità e con orrore, disgusto e disperazione ha scoperto di non essere quel che credeva di essere. Come spesso accade nei romanzi della Fossum, non è l’omicidio, il fatto di sangue in sé e per sé, a costituire l’ossatura della vicenda narrata; quel che interessa a questa finissima scrittrice è piuttosto il cono d’ombra dei sentimenti e delle passioni umane, luniverso etico delle persone, la loro consapevolezza del bene e del male e la coscienza (e dunque la responsabilità che ne deriva) della scelta dell’uno o dell’altro. È dunque la “macchia umana” di Axel e dei suoi amici il cuore di questo romanzo, eccezionale per potenza espressiva e radicalità d’analisi; macchia rappresentata da un momento preciso del loro recente passato nel quale questi giovani, in nulla diversi da migliaia d’altri, hanno assistito impotenti (e in qualche modo davvero senza colpa, e di certo senza dolo) allo sgretolarsi dell’immagine che avevano di sé e al definitivo spezzarsi di ogni loro certezza. L’insignificanza innocua delle loro esistenze, infranta nella banalità di un male compiuto con arrogante leggerezza e vile quiescenza, finisce per spegnersi, come fuoco privo d’ossigeno, nella vergogna, nell’ossessione, nell’impossibile fuga da se stessi; è allora, e soltanto allora, quando ogni resistenza è vinta, che la nuda verità dei fatti può trovare spazio, una verità che ha lo straziante, impotente accento della confessione.

Cattive intenzioni è un romanzo che si legge d’un fiato; è l’esplorazione lucida di un incubo e il ritratto severo e perfetto della nostra fragilità; è il nero spalancarsi di un abisso che in qualsiasi momento può inghiottirci, e restituirci irriconoscibili e insopportabili a noi stessi.

Eccovi lincipit del libro. Buona lettura.

Lo stagno noto come il «laghetto dell’Acqua Morta» ricordava un pozzo ed era circondato da pareti alquanto ripide. Chi vi metteva piede, sprofondava fino alle ginocchia nella melma. Sulla riva, in parte nascosta da alcuni grandi abeti, si trovava una casetta fatta di tronchi incastrati uno nell’altro. Alla finestra c’era Axel Frimann: stava guardando fuori. Era la mezzanotte del tredici settembre e la luna illuminava di un bagliore azzurrognolo la superficie liquida creando un’atmosfera quasi magica. Da un momento all’altro potrebbe emergere dagli abissi il genio delle acque, pensò Axel, e proprio mentre era immerso in queste considerazioni, gli sembrò che il laghetto si muovesse, che si fosse formata un’increspatura, come se qualcosa stesse per uscire davvero. Invece non successe niente e un sorriso che nessuno vide, gli apparve e gli morì in un attimo sul viso. Dopo aver dato un’altra occhiata in giro suggerì agli altri di fare una gita in barca.

«Avete visto che luce?» disse loro, «è fenomenale».

Philip Reilly sedeva con un libro in mano.

«Cosa ne dici Jon?».

Jon Moreno era assorto a osservare il fuoco del camino. Le fiamme lo scaldavano e lo intontivano al tempo stesso.

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