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Chi è orfano di felicità può uccidere

Recensione di “Oscuri segreti” di Michael Hjort e Hans Rosenfeldt

 

H. Rosenfeldt, M. Hjorth, Oscuri segreti, Einaudi
H. Rosenfeldt, M. Hjorth, Oscuri segreti, Einaudi

Sebastian Bergman è uno psicologo. Un professionista brillante, di non comune intelligenza, acuto nell’osservare (le cose come le persone), lucido nel ragionare e impeccabile nel trarre deduzioni. Il suo campo d’azione è la psicologia criminale, anche se da tempo Bergman non esercita più.

Il suo carattere inquieto, che in gioventù lo ha allontanato definitivamente dai genitori e negli anni della maturità lo ha portato più volte a scontrarsi con i colleghi, a collezionare amanti per il solo gusto di farlo, di dimostrare a se stesso di essere “irresistibile” (o forse solo talmente esperto della “natura umana” da manovrare qualsiasi persona a suo piacimento), a disinteressarsi di tutto quanto esulasse da se stesso, gli ha alienato quasi ogni contatto, ogni forma di amicizia, ogni genere di complicità, costringendolo a un’esistenza solitaria, arida, chiusa. Ma non è stato questo ad allontanare Bergman dal suo lavoro; l’isolamento, lui, lo ha sempre cercato, bramato addirittura; no, a sconvolgere quell’uomo è stata la vita, con la sua altalena di gioie e dolori, con l’imprevedibile alternarsi del sublime e del suo tragico opposto.

A Bergman la vita ha donato una compagna, un amore pieno, sincero, appagante, e una figlia, cui l’uomo si è dedicato per cinque anni. Cinque anni lunghissimi e brevi come un battito di ciglia, cinque anni meravigliosi, impossibili da dimenticare, spazzati via d’improvviso da un maremoto, dall’onda di piena di uno tsunami. Una catastrofe naturale che ha risparmiato soltanto Sebastian Bergman, rimasto senza famiglia, senza affetti, tormentato dai ricordi, dall’insonnia e da un incubo ricorrente pronto ad assalirlo tutte le volte che la stanchezza prende il sopravvento sulla sua volontà di resisterle. Cinico, calcolatore, manipolatore e nello stesso tempo uomo come tutti gli altri, perduto tra sofferenze rese insopportabili dalla loro irrazionalità (perché è successo? perché a me? perché mia figlia? mia moglie? domande senza risposta, ripetute infinite volte da un infinito numero di vittime), Sebastian Bergman è il protagonista di Oscuri segreti, un thriller di ottima fattura scritto a quattro mani da Hans Rosenfeldt e Michael Hjorth.

L’azione, costruita con estrema precisione, impreziosita da caratteri disegnati con cura e raccontata con uno stile serrato e potente, che inchioda il lettore alla pagina, si svolge in Svezia, a Vasteras; fin da subito, pur senza rinunciare all’azione, ai colpi di scena, alle verità rivelate poco alla volta, alle doppie vite di alcuni dei personaggi chiave del romanzo, gli autori danno alla vicenda le coloriture opache e sottili del giallo psicologico. È il chiaroscuro, impalpabile eppure eccezionalmente reale universo delle motivazioni che guidano l’autore degli omicidi (che non si considera un assassino) e Bergman, che decide di rimettersi in gioco e dargli la caccia, a dare vigore narrativo e sostanza all’intreccio; è nel silenzio delle anime prima che nel sangue delle vittime che ogni cosa si compie.

Superfluo dunque dilungarsi sulla trama, basti dire che un affiatato gruppo di detective della squadra omicidi si trova a indagare su un delitto così efferato da sembrare frutto di qualche diabolico rito esoretico. La verità, naturalmente, è ben altra, ed è nascosta dove a nessuno, a parte forse Sebastian Bergman, verrebbe in mente di cercarla: nel desiderio di felicità che abita in ciascuno di noi. Di più, nel diritto alla felicità che ci appartiene per nascita, e che troppo spesso, senza che ne abbiamo colpa, ci viene strappato via.

Eccovi l’incipit del romanzo. Buona lettura.

Non era un assassino. Continuava a ripeterselo, trascinando il cadavere del ragazzo lungo il pendio: non sono un assassino. Gli assassini sono criminali. Persone cattive. L’oscurità ha inghiottito le loro anime, hanno abbracciato le tenebre voltando le spalle alla luce. Invece lui non era cattivo. Anzi. Non aveva dimostrato l’esatto opposto, ultimamente? Non aveva messo da parte sentimenti e volontà, arrivando addirittura a farsi violenza per il bene altrui? Aveva sempre porto l’altra guancia, ecco cosa aveva fatto. La sua presenza lì, in quella conca acquitrinosa in mezzo al nulla, con il cadavere del ragazzo, non era una prova ulteriore della sua propensione a fare la cosa giusta? Non avrebbe più tradito.

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