Recensione de “Il segno dei quattro” di Arthur Conan Doyle
“Il mio cervello […] si ribella di fronte a ogni forma di stasi, di ristagno intellettuale. Datemi dei problemi da risolvere, datemi del lavoro da sbrigare, datemi il più astruso crittogramma da decifrare, o da esaminare il più complesso intrico analitico e io mi troverò nel mio elemento naturale: allora non saprò che farmene degli stimolanti artificiali; ma io detesto il grigio tran tran dell’esistenza quotidiana: ho bisogno di sentirmi in uno stato di esaltazione mentale costante.
Ecco perché mi sono scelto questa particolarissima professione, o meglio me la sono creata, dal momento che sono unico al mondo […]. Sono il solo poliziotto privato “consulente” […]. Io rappresento l’ultima e suprema corte d’appello in fatto d’indagine poliziesca. Quando Gregson, o Athelney Jones non sanno più che pesci pigliare, il che, sia detto tra parentesi, è il loro stato abituale, portano la faccenda davanti a me, io esamino i dati, come un esperto, e pronuncio il mio parere di specialista. In casi simili non accampo nessun diritto, e il mio nome non appare in nessun giornale: la mia massima ricompensa consiste nel lavoro di per se stesso e nella soddisfazione di trovare un campo adatto all’esercizio delle mie specialissime facoltà”.
Così Sherlock Holmes, il più originale e affascinante detective della storia della letteratura, descrive se stesso ne Il segno dei quattro, la seconda delle sue avventure, pubblicata nel 1890. In questo romanzo, cupa storia di avidità e vendette, Arthur Conan Doyle sembra concentrarsi, più che sulla vicenda in sé, sulla singolarità del personaggio da lui creato e sulle evidenti contraddizioni della sua personalità; lo presenta al lettore come un tossicodipendente, costretto a ricorrere alle stimolazioni chimiche di morfina e cocaina (in una soluzione al sette per cento) per scongiurare l’abisso della pazzia conseguente all’inattività forzata, ne sottolinea la forza di carattere e la lucidità con la quale giudica se stesso (e che ai più potrebbe apparire una fastidiosa manifestazione di superbia), ne svela persino la sorprendente attività d’autore – “Mi sono reso colpevole di alcune monografie: trattano tutte di argomenti tecnici. Eccone qui una, per esempio: Sulla distinzione tra le ceneri dei vari tipi di tabacco. In essa enumero centoquaranta tipi di sigari, sigarette e tabacco da pipa, con tavole colorate illustranti le varie differenzi tra le ceneri dei diversi tipi. Si tratta di un particolare che ricorre continuamente nei processi penali, e che può essere talvolta di importanza capitale come indizio” – ma come già per lo splendido esordio (Uno studio in rosso, di cui ho già scritto), anche se in questo caso con maggior insistenza rispetto al primo lavoro, gli “indizi” che lo scrittore e medico scozzese lascia trasparire su Holmes sono in realtà indizi sul caso che l’investigatore è chiamato a seguire. Alla genialità del detective, infatti corrisponde, con perfetto parallelismo, quella del narratore, capace di costruire intrecci su misura per il suo protagonista, serrature costruite appositamente per essere forzate dal suo grimaldello intellettuale; così, le rigorose deduzioni di Holmes finiscono per essere nient’altro che la traduzione pratica di una non comune capacità di osservazione della realtà. I fatti, nel loro compiersi, lasciano impressa una memoria di sé, un silenzioso racconto di ciò che è accaduto; Holmes ha la capacità di vedere quella memoria, di leggerla, di capirla e di mostrarla agli altri.
“Non si può comprendere l’universo se prima non s’impara a intender la lingua e conoscer i caratteri nei quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto”, scriveva Galileo Galilei ne Il Saggiatore; applicato al mystery, al giallo, e tradotto dalla matematica a un ordinato sistema di deduzioni logiche, il metodo d’indagine di Holmes coincide con quello scientifico galileiano e si può riassumere così: la verità è nelle cose, bisogna soltanto essere capaci di coglierla (o come dichiara lo stesso Sherlock Holmes: una volta tolto di mezzo l’impossibile, quel che resta, per quanto improbabile, deve essere vero).
Ed è esattamente questa verità, allo stesso tempo invisibile e manifesta, la misura della grandezza di Holmes e dell’unicità dell’opera di Conan Doyle: una volta sciolto l’intreccio, quando l’investigatore privato, dinanzi al proprio stupefatto pubblico (composto dagli inetti funzionari di Scotland Yard e dall’amico Watson), riassume quel che è successo, ecco che quelli che fino a un momento prima sembravano tasselli di un puzzle impossibile da ricostruire divengono una conseguente serie di fatti, un procedere inevitabile da un ben preciso inizio (uno o più omicidi, un misterioso movente da scoprire) a una altrettanto ben definita conclusione (l’individuazione del movente, la cattura del colpevole), i cui singoli passaggi (le scene del crimine, gli interrogatori dei testimoni e dei sospetti), al pari dei capitoli di un libro, sono sempre dinanzi allo sguardo degli investigatori ma possono essere colti soltanto da chi possiede i giusti strumenti per farlo. Al di là del caso specifico, dunque – per Holmes, in fondo, poco più che uno stimolo intellettuale utile a scongiurare l’autodistruttivo ricorso agli stupefacenti – quel che è davvero in gioco nella sua battaglia contro il crimine è il vero, e il dilemma filosofico legato alla sua esistenza e alla sua conoscibilità. Il vero, di cui la giustizia degli uomini non è che pallida eco. Imperfetta, eppure, in qualche modo, indispensabile.
Sherlock Holmes tolse una bottiglia dalla mensola del caminetto e una siringa ipodermica da un lucido astuccio di marocchino. Con le lunghe dita, bianche e nervose, avvitò all’estremità della siringa l’ago sottile e si rimboccò la manica sinistra della camicia. I suoi occhi si posarono per qualche attimo pensierosi sull’avambraccio e sul polso solcati da tendini e tutti punteggiati e segnati da innumerevoli tracce di iniezioni. Infine si conficcò nella carne la punta acuminata, premette sul minuscolo stantuffo, poi, con un profondo sospiro di soddisfazione, ricadde a sedere nella poltrona di velluto.