Recensione di “Giganti” di Alfred Döblin
Fa pensare alle sentenze di Cassandra, profetessa condannata da Apollo a dire sempre la verità e a non esser mai creduta, l’apocalisse prossima ventura descritta da Alfred Döblin, fondatore e animatore instancabile del movimento espressionista tedesco, in Giganti, uno dei suoi lavori più ambiziosi e complessi, pubblicato una prima volta nel 1924 e poi, ampiamente rimaneggiato, nel 1932.
Allucinata e fiammeggiante nello stille, immaginifica e anticipatrice nei contenuti, nel disegno visionario, delirante, scomposto, urlato e febbrile di un domani che altro non è se non la cellula tumorale del nostro presente pienamente sviluppata, quest’opera, un unicum nella storia della letteratura, è insieme racconto, incubo e monito; è il solitario, lucido delirio di un’anima lacerata da insopportabili tormenti e nel medesimo tempo la più imponente delle pubbliche tribune, costruita con disperata forza di volontà al solo scopo di moltiplicare la propria voce, di renderla universale.
Storia del mondo e di tutti coloro che lo popolano, corale utopia negativa – “Doblin”, scrive Italo Alighiero Chiusano nella splendida postfazione al volume edito da Mondadori, “il pianeta Terra […] lo reclama per sé tutto quanto, e vi scorrazza col volo e lo sguardo di un demiurgo, riferendo le sue vicende come l’autore della Genesi la creazione del mondo” – Giganti è un canto poetico e una cronaca brutale; l’autore racconta, dal punto di vista di un dio sconfitto, o di una razionalità ordinatrice che ha smarrito se stessa, l’inarrestabile sviluppo tecnologico dell’umanità, il conseguente formarsi di società “perfette” liberate dalle necessità materiali e sistemate in megalopoli immense e la parallela ascesa di ristrette élite di potere (i Senati), responsabili di ogni scelta, di ogni decisione.
In questo sistema organizzato nei minimi dettagli ed esteso a livello planetario, a dominare sono la scienza e la tecnica, la manipolazione forzata non solo della natura ma dello stesso essere umano. Invenzioni si susseguono a invenzioni in una folle dimostrazione di onnipotenza che finisce per annientare se stessa: un biologo, Meki, arriva a creare sostanze nutritive sintetiche che rendono superfluo qualsiasi tipo di coltivazione, ma poi si suicida devastato dal rimorso; un altro, Marduk, violenta la natura al punto da imporre agli alberi una crescita smisurata, ma finisce per ridurre le sue creature a meri strumenti di tortura e di morte:
“Gli alberi avevano allargato le loro masse, informemente. A mala pena si poteva camminare a due a due fra un albero e l’altro. Avevano negli orecchi un ronzio simile a quello del giorno innanzi. Non capivano di dove venisse: veniva dal suolo, veniva di fuori? Non osavano toccare gli alberi. Dall’alto scendeva chiara la luce mattutina, galli cantavano in vicinanza, i carri, correndo sotterra, facevano fracasso. E allora fu un gemere angoscioso qui, un gemere là. Chi si spogliava della giacca, della blusa, per respirar meglio. Era certo, spaventosamente certo: il bosco cresceva. Mentre alcuni degli uomini e delle donne giacevano svenuti, ed altri, senza più pensiero, montavano su di essi, tremavano a tutti le ginocchia. Aggirandosi per il bosco e andando tentoni come in una cantina, alcuni, dal muro, gridavano il nome di Marduk: «Pietà, Marduk!». Alcuni tornavano sempre da capo a cercare i passaggi, che d’ora in ora si facevano più stretti”.
Dilaniata da ribellioni, da conflitti intestini e infine da una guerra atroce, affrontata con le armi più sofisticate e nonostante ciò combattuta con belluina ferocia, quasi il mondo intero fosse precipitato d’improvviso in un nuovo Medioevo, l’umanità di Döblin, prigioniera di una realtà che non offre stimoli e non permette fughe, si lascia trascinare dai Senati nella più assurda delle imprese: il disgelamento della Groenlandia. L’epico sforzo segna l’inizio della fine; la ferita che l’uomo, dimentico di se stesso, infligge alla terra spalanca le porte al caos; forze primordiali vengono risvegliate, mostri simili a draghi e dinosauri tornano a essere signori del mondo e la loro furia devastatrice non lascia agli uomini altra scelta che rifugiarsi nel sottosuolo, come vermi ciechi.
Qui, l’ombra delle loro esistenze materiali diviene specchio di una tenebra ancor più terribile, quella in cui sprofonda lo spirito: nelle città sotterranee, infatti, gli uomini si abbandonano a ogni genere di sfrenatezza, mentre in superficie, la natura, malignamente fecondata dalla manipolazione operata dalla scienza, partorisce senza sosta orrori. I corpi dei mostri uccisi, a contatto con la terra, con i gruppi di uomini che ancora li combattono, germogliano come fiori malati dando vita a creature spaventose, esseri indefinibili, impasto insensato di sabbia, carne sangue, legno, erba. È l’epoca, nata già morta, dei giganti, immensi sovrani del nulla.
Opera inafferrabile e spaventosa, nutrita d’eccessi, incatenata (proprio come un mostro, o un alienato in un manicomio ottocentesco) a un linguaggio condannato a dar forma e senso all’inesprimibile, Giganti è un libro possente, difficile da leggere, da comprendere e ancor più da accettare; è un testamento, e una profezia che non possiamo permetterci di ignorare.
Eccovi, invece dell’inizio del romanzo, la riflessione che chiude la già citata postfazione di Italo Alighiero Chiusano. Buona lettura.
Riconosciamo parecchie cose ben nostre e dei nostri giorni in Giganti: il femminismo, un quidsimile di bomba atomica, lo scatenamento sessuale, la vita nel segno della paura e della violenza, l’avvento del Terzo mondo, l’uomo degradato a cavia, un terrorismo fanatico contro un’oligarchia imperialista, la miniaturizzazione di certe macchine, la guerra e le grandi imprese collettive come diversivo politico, l’artificio sostituito alla natura. Eppure tutto ciò ha un sapore diverso da quello che conosciamo per esperienza: insieme più stringente e più remoto, più palpabile e più misterioso. E sa di Döblin. Realizzazione non da poco, imprimere il proprio marchio a una “storia” che è quella, presente e futura, di un intero pianeta.