Recensione de “L’idiota” di Fedor Dostoevskij
Malato perché epilettico, perché innocente, perché “completamente buono” e incapace di meschinità, di viltà; malato perché spettatore della vita (della propria prima che di quella altrui), perché spaventato dall’idea stessa di volere, di desiderare, di anteporre se stesso al prossimo; malato di misericordia, d’amore, di pietà, ma soprattutto di solitudine, il principe Myskin, protagonista de L’idiota di Fedor Dostoevskij, racchiude nella sua anima vergine gli estremi opposti dell’essenza e della negazione dell’umano.
Terrena rappresentazione di Cristo negli attributi del carattere, quest’uomo, creatura fra le altre, è comunque condannato all’imperfezione e al fallimento; poco importa che la sua fragilità di uomo non si riveli nel peccato, nell’egoismo e nella malvagità che dominano il mondo che lo circonda (e che Dostoevskij, almeno in parte, incarna negli altri personaggi del romanzo; nel passionale Rogozin, nella bellissima Nastas’ja Filipovna, vittima del suo stesso fascino, in Aglaja, che inutilmente rivendica il proprio diritto ad amare ed essere riamata), perché Myskin è un idiota, uno straniero, un diverso, e la sua incorrotta moralità soltanto il segno esteriore della follia di cui soffre.
C’è una distinta impronta religiosa nella parabola di quest’uomo, che, come scrive Fausto Malcovati nell’introduzione al volume edito da Garzanti, è “del tutto sprovvisto di intelligenza sociale” e “vive il mondo […] come tema di costante ricerca, di inquietante meditazione sui perché ultimi”, ma l’autore ne tronca sul nascere il possibile (e salvifico) rigoglio soffocandolo nel tragico svolgersi della narrazione; risuona l’eco della croce e del supplizio patito dal figlio di Dio nell’argomentare quieto e puro del principe – in grado di scorgere, e di amare, nell’infinità del cielo terso di San Pietroburgo e nel brillare del sole sui tetti dei palazzi, il manifestarsi di una volontà santa – ma giunge distorta e incomprensibile agli uomini, proprio come impossibile da capire risulta, a coloro che non riescono a provarlo, un amore per il prossimo così assoluto, totale e gratuito da condurre fino all’estremo sacrificio di sé.
Così Myskin, “che turba il mondo con la sua bontà e innocenza; che lo inquieta, lo sconcerta, gli toglie arroganza, lo costringe a mettersi in discussione, a rivedere i propri canoni”, alla fine è costretto ad arrendersi all’erompere degli istinti, alla furia devastatrice degli appetiti, alla logica perversa di un ordine sociale che, orfano del divino, non è più in condizione di riconoscere, nelle creature, quella che dovrebbe esserne la qualità distintiva (esistere, e vivere, a immagine e somiglianza di Dio), e per questa ragione all’ingenuo principe giunto dalla Svizzera finisce per riservare soltanto disprezzo.
La prosa di Dostoevskij, serrata, incisiva, tumultuosa, concentra gli avvenimenti in una manciata di ore, e quasi si sbarazza del tempo esteriore per dare il massimo risalto a quello, più dilatato e infinitamente più sfaccettato, dei sentimenti, dell’universo interiore degli uomini e delle donne che popolano il romanzo. Tutto sembra accadere in una dimensione spirituale, sospesa, prima che nella realtà, nel quotidiano, al punto che la storia (che non riassumo proprio per conservarne, anche qui, questa sua affascinante particolarità) si può leggere e interpretare quasi come un sogno.
Solo il tragico finale ci trasporta nella materialità delle cose, con l’amore, ridotto a mero desiderio, che si fa strumento di annientamento e di morte, mentre la sovrumana bontà di Myskin, umiliata e sconfitta, si rifugia nello squallore mondano del male, nell’acuto manifestarsi dell’epilessia. Monumentale romanzo psicologico, riflessione potente, dolorosa e commossa sull’uomo e sul suo destino (mortale ed eterno), L’idiota è molto più che un capolavoro letterario; è un cammino di inaudito coraggio in una terra di tenebre e luce, nostra culla e tomba.
Eccovi l’incipit (la traduzione è di Rinaldo Küfferle). Buona lettura
In una giornata di disgelo degli ultimi di novembre, verso le nove del mattino, il treno di Varsavia filava a tutto vapore, avvicinandosi a Pietroburgo. Il tempo era così umido e nebbioso, che la luce del giorno si diffondeva a stento; a dieci passi di distanza da una parte e dall’altra della ferrovia, era difficile distinguere alcunché attraverso i finestrini. Tra i viaggiatori c’erano alcuni che tornavano dall’estero; le vetture di terza classe, però, quelle più zeppe, erano soprattutto occupate da gente minuta, piccoli commercianti che venivano da molto lontano. Tutti, naturalmente, erano stanchi, tutti avevano, dopo la nottata in treno, le palpebre gonfie, erano intirizziti, e i loro visi avevano acquistato una tinta giallognola, del medesimo pallore della nebbia.
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