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Un fremito tra le scapole

Recensione di “Casa desolata” di Charles Dickens

recensione Charles Dickens, Casa desolata, Einaudi
Charles Dickens, Casa desolata, Einaudi

“Ciò che dobbiamo fare, leggendo Casa desolata (Bleak House), è rilassarci e lasciare che sia la spina dorsale a prendere il sopravvento. Benché si legga con la mente, la sede del piacere artistico è tra le scapole. Quel piccolo brivido che sentiamo lì dietro è certamente la forma più alta di emozione che l’umanità abbia raggiunto sviluppando la pura arte e la pura scienza.


Veneriamo dunque la spina dorsale e i suoi fremiti. Siamo fieri di essere dei vertebrati, perché siamo dei vertebrati muniti nella testa di una fiamma divina. Il cervello è solo una continuazione della spina dorsale; lo stoppino corre in realtà per tutta la lunghezza della candela. Se non siamo capaci di godere di questo brivido, se non sappiamo godere della letteratura, rinunciamo a tutto questo e concentriamoci sui fumetti, sulla Tv, sui libri-della-settimana. Ma io penso che Dickens si rivelerà più forte”.

È interamente racchiuso in questa raffinata, puntuale considerazione di Vladimir Nabokov il senso dell’esperienza estetico-cognitiva offerto da Casa desolata di Charles Dickens, non certo uno dei romanzi più celebri del grande autore inglese ma per molti aspetti un’opera di estremo interesse, e di indiscutibile fascino.

Puntuta satira sociale, impareggiabile studio di caratteri (basti pensare allo sterile attivismo filantropico di Mrs Jellyby, talmente impegnata a “salvare” ed “educare” gli indigeni del villaggio africano di Borrioboola-Gha da trascurare qualsiasi altra cosa, in primo luogo i suoi doveri di madre), commedia nera e perfino detective story, Casa desolata è un mosaico narrativo complesso ed elettrizzante, un labirinto di storie che dietro ogni angolo cela sorprese e colpi di scena, uno spettacolo di fuochi d’artificio che esplode in una moltitudine di figure e colori che pare inesauribile e insieme un riflettere caldo, paziente e implacabile sulla natura umana e sulla sua condizione. 

“Pretesto” e filo conduttore della vicenda è una causa legale (Jarndyce contro Jarndyce) che si trascina da moltissimo tempo e sembra ancora assai lontana dalla conclusione – memorabile l’incipit del romanzo, con la vivida descrizione di una Londra novembrina appassita e morente, affondata nel fango e assediata dalla nebbia, nel cui cuore, così fitto da essere impenetrabile, “tiene udienza il Lord Cancelliere.

Mai la nebbia sarà tanto fitta, né il fango e la mota così alti da poter eguagliare lo stato di brancolamento e di confusione in cui si trova oggi al cospetto del cielo e della terra la Corte di Giustizia del Lord Cancelliere, scelleratissima e decrepita peccatrice” – gigantesca tela di ragno che avviluppa, seppur con differenti gradi di coinvolgimento, tutti i personaggi del libro, ne domina i destini come il peggiore dei tiranni e, con l’efficacia del più potente dei veleni, ne corrompe gli animi. E sono naturalmente legati alla causa i segreti (come quello che nasconde lady Honoria Deadlock),  le bramosie (dell’avvocato Tulkinghorn e del giovane Richard Carstone, che finisce per farsi ossessionare dalla causa e dal desiderio di vincerla, per sé e per la donna che ama), che come fiumi carsici attraversano la storia, come anche le innocenti, pure resistenze a queste derive (rappresentate soprattutto da Esther, vera eroina della storia); come d’abitudine, Dickens racconta ogni cosa con torrenziale ricchezza d’accenti, lasciando spazio sia alla contagiosa leggerezza della commedia sia alla vivida cupezza del dramma; egli prima conquista il lettore con la suggestiva, rapinosa affabulazione del consumato cantastorie, poi lo “imprigiona” nella rete della sua maestria descrittiva, nell’eccezionale acume psicologico dei suoi ritratti, nel garbo deciso delle sue denunce, nello smascheramento (ironico, ma non per questo meno incisivo) delle ipocrisie, costringendolo a una riflessione che sia specchio, per intensità e profondità, di quella dell’autore, e a una ben definita presa di posizione.

Così si chiude il cerchio perfetto dell’“esperienza Dickens” splendidamente riassunto da Nabokov; un viaggio della ragione e dell’emozione, dell’intelletto e del cuore nel mondo di un grande scrittore, “una democrazia magica dove anche certi personaggi assolutamente secondari, anche il più marginale […] hanno il diritto di vivere e di generare”.

Eccovi l’incipit del romanzo (la traduzione, edizione Einaudi, è di Angela Negro). Buona lettura.

Londra. Sessione autunnale da poco conclusa e il Lord Cancelliere tiene udienza a Lincoln’s Inn Hall. Implacabile clima di novembre. Tanto fango nelle vie che pare che le acque si siano da poco ritirate dalla superficie della terra e non stupirebbe incontrare un megalosauro, di quaranta piedi circa, che guazza come una lucertola gigantesca lungo Holborn Hill. Fumo che scende dai comignoli come una soffice acquerugiola nera con fiocchi di fuliggine grandi come fiocchi di neve vestiti a lutto, si potrebbe immaginare, per la morte del sole. Cani che si distinguono appena nella mota. Cavalli, infangati fino ai paraocchi, in condizioni di poco migliori. Pedoni, quasi tutti affetti da irascibilità, che si urtano a vicenda con gli ombrelli e perdono l’equilibrio agli angoli delle strade, dove fin dall’alba (ammesso che ci sia stata un’alba oggi) sono già scivolati migliaia di altri pedoni, aggiungendo nuovi depositi alla crosta formatasi sopra lo strato di fango, restando in quei punti tenacemente sul marciapiede e accumulando melma a interesse composto.

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