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Il fallace sillogismo della realtà “impossibile”

Recensione di “Assassinio sull’Orient-Express” di Agatha Christie

 
Agatha Christie, Assassinio sull'Orient Express, Mondadori
Agatha Christie, Assassinio sull’Orient Express, Mondadori

Difficile trovare, nel ricchissimo universo del romanzo giallo, un espediente narrativo che abbia più fascino del “delitto impossibile”. Compiere un crimine senza che si diano, almeno in apparenza, le condizioni per poterlo fare, rappresenta infatti ben più che una semplice sfida all’acume e all’intelligenza degli investigatori; è una sorta di elettrizzante scommessa che l’assassino (perché il delitto per eccellenza, si sa, è l’omicidio) stipula con se stesso, un atto estremo, uno spingersi orgoglioso e tracotante al di là dei propri limiti.


Per questo non c’è mistero di più fitto di quello della “camera chiusa” – un cadavere ritrovato in una stanza priva di vie d’uscita e nessuna traccia del colpevole, che a rigor di logica, se anche in quella stanza avesse potuto entrarvi, magari invitato proprio dalla vittima, di certo non avrebbe avuto modo di lasciarla – né rompicapo più indecifrabile di quello che unisce all’avvenuto fatto di sangue unicamente la presenza di ulteriori potenziali bersagli (l’esempio classico è lo splendido Dieci piccoli indiani di Agatha Christie, di cui ho già scritto in questo blog).

C’è qualcosa, nelle situazioni in cui è l’atto stesso di uccidere a dimostrare la propria possibilità (di più, la propria irrefutabile realtà) a fronte di circostanze che ne contraddicono apertamente l’evidenza, che agisce sull’essenza del racconto, sulla sua consistenza letteraria, sul suo andamento, sul suo respiro: una squisita, irresistibile “metafisica del delitto” che trascende la nuda analisi dei fatti per concentrarsi sul reale fondamento dell’assassinio, sul momento in cui l’idea di agire ha preso forma nella mente dell’omicida e successivamente corpo nelle varie fasi del suo sviluppo, su quel che il tecnicismo dell’indagine procedurale indica con eccesso di semplicità come movente ma che l’“investigatore-filosofo” chiamato a risolvere il caso (il solo realmente in grado di riuscire nell’impresa perché consapevole, e a suo modo rispettoso, della perversa grandezza del gesto, della sua oscura dignità, della sua corrotta nobiltà) ascrive al più generale e complesso e fecondo concetto di natura umana.

E proprio studioso della natura umana – uno dei migliori, anzi, il migliore in assoluto – si definisce quello che è con ogni probabilità il più geniale personaggio inventato da Agatha Christie, l’investigatore privato Hercule Poirot, protagonista di Assassinio sull’Orient Express, uno dei massimi capolavori della grande scrittrice inglese, romanzo di travolgente bellezza, insieme incalzante e tranquillo, quasi sonnolento nello svolgimento, che recupera, declinandole con sorprendente originalità, le atmosfere uniche della “camera chiusa” e le trasferisce a bordo di un treno (il raffinato Orient Express che dà il titolo al romanzo), bloccato sui binari da un’abbondante nevicata.   

Negli spazi chiusi, definitivi di uno scompartimento, con un ben preciso numero di persone a bordo, si consuma un delitto atroce e inspiegabile (dodici coltellate, inferte, secondo quanto emerge da un primo, parziale esame autoptico, non da un’unica mano), una barbarie che pare non aver nulla a che fare con gli altri viaggiatori, tutti estranei alla vittima. Va da sé che l’omicidio non può essere frutto di un caso, su questo concordano tutti; ma quando anche l’ipotesi che a commetterlo possa essere stato un assassino particolarmente audace, rimasto sul treno solo il tempo necessario a portare a termine il compito, considerata inizialmente come la più probabile, si dimostra inconsistente, ecco che il detective sembra doversi arrendere, subire uno scacco matto. In assenza di ipotesi plausibili, il “delitto impossibile” si rivela in tutta la sua perfezione non come qualcosa di impossibile da compiersi, bensì come gesto impossibile da scoprire e di conseguenza immune da qualsiasi punizione.

La realtà, fortunatamente, è un’altra, perché la filosofia criminale che regge il delitto perfetto, lungi dall’essere un sistema compiuto, è solo un sillogismo; elegante, senza dubbio, ma anche intrinsecamente fragile. È infatti proprio nel momento in cui l’impossibile diviene atto concreto che all’investigatore (certo, non uno qualsiasi, ma un pensatore, un attento studioso della natura umana come Hercule Poirot) in qualche modo si schiudono le porte del mistero, non importa quanto complesso sia. Perché se qualcosa è accaduto, di tutta evidenza c’è solo una cosa che rimane da fare: capire come si siano svolti i fatti, e soprattutto per quale ragione. In questo processo di progressivo disvelamento del vero, che riporta alla luce, da una platonica caverna colma di colpe, rimorsi e vendette, la tragica attualità della morte, Agatha Christie sfoggia tutto il suo talento letterario, regalando al lettore un intreccio impeccabilmente disegnato, impreziosito dal garbo di una prosa inimitabile, da un’ironia sottile e vivacissima e dalla brillante effervescenza dei caratteri, incastonati come diamanti in quadri d’ambiente di scintillante puntualità e precisione. E a mistero risolto, quel che resta, in luogo del tetro spettro dell’impossibile dissolto dalla ragione, è soltanto una verità: quella, incontestabile, del male.

Eccovi l’inizio del romanzo (la traduzione, edizione Mondadori, è di Alfredo Pitta). Buona lettura.

Erano circa le cinque di una mattina d’inverno, in Siria. Lungo il marciapiede della stazione d’Aleppo era già formato il treno che gli orari ferroviari internazionali indicavano pomposamente col nome di Taurus Express, e che consisteva in due vetture ordinarie, un vagone-letto e un vagone-ristorante con annesso cucinino.

Vicino alla scaletta di uno degli sportelli del vagone-letto, un giovane tenente francese, splendido nella sua uniforme, conversava con un omino imbacuccato fino alle orecchie e del quale erano visibili solo il naso arrossato e le punte di un paio di baffi arricciati all’insù.

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