Recensione di “Il cacciatore di draghi” di J.R.R. Tolkien
Una terra che ha il nome fanciullesco e fantastico di Piccolo Regno, un protagonista, che non è altro che un umile contadino eppure si chiama come il più nobile dei nobili, Aegidius Ahenobarbus Julius Agricola de Hammo (“perché in quell’epoca, molto tempo fa […] le persone erano dotate di nomi altisonanti”), una prosa gentile, colma di grazia, di misura, piacevole e rassicurante come una carezza e nello stesso tempo carica di suggestione e mistero come un innocuo segreto sussurrato all’orecchio di un bambino.
E infine il soffio garbato e irresistibilmente dispettoso dell’ironia, della burla, dispensata come un omaggio sincero, di più, come una dichiarazione d’amore a un genere letterario che ha nella creatività, nell’invenzione, nella libertà sconfinata della fantasia, del desiderio e del sogno la propria prima ragion d’essere: il fantasy. Tutto questo è Il cacciatore di draghi di J.R.R. Tolkien, breve e delizioso racconto scritto e pubblicato nel 1949 (e da noi tradotto solo nel 1975).
Non manca nulla, nel mondo disegnato dal grande scrittore britannico; ci sono giganti, cani parlanti, re, cavalieri (l’uno e gli altri, spogliati di ogni eroismo, sono il principale bersaglio della satira dell’autore, che si diverte a rappresentarli avidi, meschini, in qualche misura “bestiali”, supini all’arbitrio degli istinti), e naturalmente un drago, Chrysophylax Dives, astuto, immensamente ricco e soprattutto non molto coraggioso. Su questo affollato palcoscenico, tuttavia, nessuno di essi spicca, perché la storia non ha che un unico eroe, Aegidius, o meglio Giles, l’agricoltore dalla barba rossa.
Narrando delle sue gesta (compiute più per caso che per reale volontà, quasi l’uomo fosse una sorte di antenato di Don Chisciotte, solo dotato di un po’ più di consapevolezza) Tolkien riduce a semplici comparse tutti gli altri attori trasformando le loro decisioni in altrettante occasioni di distinzione per Giles. Così, è con un sorriso compiaciuto, soddisfatto, sazio, che il lettore gode, assieme a Gilles, dei suoi successi; è in compagnia dell’agricoltore che assapora la gratitudine che interi villaggi gli tributano per essere stato capace di far fuggire il gigante che si era spinto fino a quelle terre – gli aveva sparato con il suo fucile, il suo “trombone”, e il colosso, pensando di essere stato punto da un insetto particolarmente fastidioso, si era deciso a tornare sui suoi passi, lasciandosi alle spalle una regione “così insalubre” – e gusta le libagioni che gli vengono riservate (“bevve gratis tanta birra da farvi galleggiare una barca; ciò a dire che ne ebbe quasi a sazietà, e tornò a casa cantando vecchi canti eroici”). Né l’atmosfera muta quando a un avversario se ne sostituisce un altro; Giles, infatti, con la medesima, fortunata noncuranza riservata al gigante affronta Chrysophylax Dives, e riesce ad averne ragione soltanto grazie alla sua spada, Mordicoda, una lama magica che si anima da sé ed esce dal proprio fodero ogni volta che un drago si trova nelle vicinanze.
In un carosello di equivoci, scherzi e buffi incidenti, dunque, Giles si trasforma per la seconda volta in eroe, ma questi panni trova comunque il modo di meritarli (e di nuovo viene da pensare alla saggezza di Sancho Panza, lo scudiero di Don Chisciotte, che, chiamato a dirimere una difficile controversia, risolve la questione con intelligenza e acume) quando rifiuta di consegnare al re il tesoro del drago e, aiutato proprio dall’animale, divenuto suo servitore, ne respinge gli armigeri. “Alla fine”, scrive Tolkien prendendo in prestito dal registro fiabesco (in fondo, tutta la sua avventura profuma di fiaba) il classico e vissero tutti felici e contenti, “Giles divenne Re, naturalmente: Re del Piccolo Regno. Venne incoronato a Ham col nome di Aegidius Draconarius; ma era più spesso noto come il Vecchio Giles del Serpente […]. Così Giles divenne infine vecchio e venerabile, e aveva una barba bianca lunga fino alle ginocchia, e una Corte molto rispettabile (nella quale i meriti venivano spesso premiati), e un ordine di cavalieri completamente nuovo […]. Bisogna ammettere che Giles dovette la sua ascesa in larga misura alla fortuna, anche se dimostrò una certa intelligenza nell’usarla. Fortuna e astuzia lo accompagnarono fino alla fine dei suoi giorni, con grande beneficio dei suoi amici e dei suoi vicini”.
Eccovi l’incipit del racconto (la traduzione, edizione Bompiani, è di Isabella Murro, le illustrazioni che impreziosiscono il testo sono di Pauline Diana Baynes). Buona lettura.
Della storia del Piccolo Regno sono rimasti pochi frammenti, ma il caso ha voluto che un resoconto delle sue origini sia stato preservato: una leggenda, forse, più che un resoconto, poiché è evidente che si tratta di una compilazione tarda, piena di cose straordinarie, tratte non da cronache fondate ma da ballate popolari alle quali l’autore fa spesso riferimento. Gli avvenimenti che registra appartengono già ad un passato a lui lontano; ciononostante pare che lui stesso abbia vissuto nelle terre del Piccolo Regno. Infatti le conoscenze geografiche che dimostra di avere (e non sono certo il suo forte) si riferiscono proprio a quel paese, mentre delle altre regioni a nord e a est, dimostra una totale ignoranza.
Il genere fantasy “non mi arriva” come direbbe la Maître à penser Simona Ventura, però un racconto potrei leggermelo 🙂
È delizioso, fidati. E cortissimo, che in questo caso, dato che il genere “non ti arriva”, è un pregio