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L’entropia, l’Apocalisse, la letteratura

Recensione di “V.” di Thomas Pynchon

recensione - Thomas Pynchon. V., Rizzoli
Thomas Pynchon. V., Rizzoli

Molteplice come i nomi cui può fare riferimento, o come i luoghi (reali o fantastici) che suggerisce alla memoria e all’immaginazione; complessa, come la verità che sembra promettere ma che continuamente sfugge, in un gioco di rimandi, di relazioni impossibili e di disordine creativo nel quale, come nell’immobile eterno ritorno dell’araba fenice, principio e fine coincidono;


multiforme, come le divinità antiche, la cui onnipotenza si traduceva nell’atto di volontà con il quale trasformavano se stessi in qualsiasi cosa decidessero di diventare, e i sogni, e infine la realtà stessa, considerata da tanti punti di vista quanti sono coloro che la vivono, la sperimentano, la interpretano (forme apparentemente diverse della sostanziale sottomissione a essa).

V., opera prima di Thomas Pynchon (pubblicata nel 1963), una semplice lettera suscettibile di essere qualsiasi cosa come nessuna cosa, è un romanzo che ha in sé l’esplosività generatrice di una cosmogonia e la leggerezza irresponsabile di uno scherzo perfetto, la cui riuscita obbedisce a un’unica condizione, quella di non tener conto delle conseguenze cui darà vita; è l’atto puro del narrare che trascende se stesso e divora, nel momento stesso del parto, tutto ciò che fa nascere.

Fin dall’esordio, il grande scrittore americano ha ben chiari in mente i temi che daranno sostanza all’intero suo lavoro (uno dei più significativi dell’intera storia della letteratura), e che egli declinerà, con quella duplicità che gli è essenziale e che lo rivela più di qualsiasi altra caratteristica, sempre nello stesso modo eppure in forme continuamente diverse (anche se a ben guardare ogni romanzo di Pynchon si può considerare come la tessera un unico puzzle, che forse non verrà mai completato per il semplice fatto che non è possibile completarlo, proprio come non è possibile mettere in fila tutti i numeri, pur avendo noi un’idea ben chiara della loro infinità); la ricerca, infruttuosa ma ineludibile, di un significato, di un senso, del fondamento filosofico dell’uomo e del mondo, e la collezione dei segni, degli indizi, e delle non rare prove che dimostrano come il solo significato possibile dell’esistenza delle cose sia la loro condanna al dissolvimento.

Come scrive Guido Almansi nella prefazione all’edizione del romanzo edita da Rizzoli (collana La Scala), “Thomas Pynchon è il grande scrittore apocalittico dell’epoca moderna. I suoi mostruosi romanzi, alcuni di mole e ambizioni gigantesche, sono monumenti di sapienza enciclopedica ed esoterica, anche se sono composti esclusivamente di frammenti, dell’immondizia della cultura e della società, delle rovine di un sapere antico ormai in frantumi. È il labirinto distrutto (o esploso) che Paul Klee rievoca nel titolo di un suo quadro. Gli eroi dei suoi libri cercano faticosamente di raccogliere assieme le rovine del mondo per dare sostanza all’idea, insensata, che il mondo continui a essere sensato”. 

Se tutto questo è vero, non esiste miglior omaggio da tributare a Pynchon del tentativo di riassumere un libro che ha a proprio oggetto una totalità indistinta (V., in fondo, è anche la prima lettera di quella che è forse la madre di tutte le illusioni, la verità); così, ecco due personaggi tra loro opposti, Benny Profane (uno schlemil, figura della tradizione culturale ebraica che ha il nostro imperfetto corrispettivo in una persona goffa, impacciata, imbranata specialmente in tutto quel che ha a che fare con la manualità; un uomo, come spiega ancora Almansi, cui, “per riprendere il vecchio aneddoto che circolava a Parigi al tempo dell’esistenzialismo trionfante, le fette di pane tostato […] cadono per terra sempre dalla parte imburrata […]. «Sorry», «mi dispiace», è la sua parola abituale), di professione cacciatore di alligatori nelle fogne di New York, e Stencil, figlio d’arte, anch’egli cacciatore, ma di complotti globali, e di una donna, per l’appunto V., che già aveva ossessionato il padre e che forse è soltanto una donna, forse un automa, forse un ibrido, la totalità incompiuta di cose tra loro inconciliabili.

Queste le coordinate di lettura, anche se non si ribadirà mai abbastanza che nei viaggi organizzati da Thomas Pynchon la sola cosa di cui si può tranquillamente fare a meno è la bussola.

Eccovi l’incipit (la traduzione è di Giuseppe Natale). Buona lettura.

1955, la vigilia di Natale. Benny Profane, jeans neri, giubbotto di pelle scamosciata, scarpa da ginnastica e cappellone da cow-boy, si trovava a passare da Norfolk, in Virginia. Essendo uno che si lasciava facilmente prendere dagli attacchi di nostalgia, aveva pensato di fare un salto al Sailor’s Grave, la bettola sulla East Main dove un tempo si ritrovavano i marinai del suo vecchio cacciatorpediniere. Era passato per l’Arcade. Alla fine della galleria, prima di sbucare in East Main, s’era trovato davanti un vecchio cantante di strada, armato di una chitarra e di un barattolo vuoto per l’elemosina. Più in là, un furiere capo stava cercando di pisciare nel serbatoio di una macchina, una Packard Patrician del ’54, sostenuto dall’incoraggiamento di cinque o sei allievi marinai che lo attorniavano.

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