Recensione di “Fiesta (il sole sorgerà ancora)” di Ernest Hemingway
Nel vuoto palcoscenico di città ridotte alle luci e ai tavoli di locali e bistrot, un gruppo di amici, reduci di guerra (e ancor più di vita, sopravvissuti a un’esistenza di cui non comprendono il senso, lo scopo), sembra lottare contro il tempo opponendo al suo scorrere una resistenza passiva fatta di incontri e ozio, di chiacchiere torrenziali e innocue, studiate per restare alla superficie di ogni cosa ed evitare prese di posizione, responsabilità e il tocco gelido della verità. Nel caotico rincorrersi di appuntamenti fissati quasi al solo scopo di dimenticarli, o disinteressarsene, in un disperato, inutile girotondo di finzioni, il trauma del conflitto appena combattuto e delle ferite fisiche e spirituali che ha lasciato riappare di continuo come un rimorso, una colpa, un destino, a ricordare a tutti e a ognuno l’inevitabilità del dolore e della sconfitta. È in questo scenario d’ombra, che ha la duplicità clownesca dello spettacolo e che, nella sua esibita sete di felicità e appagamento sperimenta l’abisso sconfinato del nulla, che Ernest Hemingway ambienta Fiesta (il sole sorgerà ancora), romanzo d’esordio pubblicato a New York nel 1926 e a Londra l’anno successivo. La semplicità perfino eccessiva della trama – che al termine di una prima parte che si può considerare introduttiva e serve all’autore per presentare al lettori i protagonisti della storia, raccontandone solo una scarna biografia, utile a mettere in luce più le loro fragilità e debolezze che qualsiasi altra caratteristica, si esaurisce nella narrazione, quasi un resoconto, di un viaggio a Pamplona per assistere alla tradizionale corsa dei tori per le strade cittadine e alle successive corride – ha il suo perfetto corrispondente in uno stile asciutto, povero persino, che alterna la puntualità delle descrizioni (gli scorci di Parigi, gli alberghi visitati, le taverne di Pamplona, la maestosa potenza dei tori, la severa e in qualche caso un po’ posticcia dignità dei toreri) alla conturbante esplosività delle confessioni, della sincerità amara e disillusa stimolata dall’ubriachezza, dalla stanchezza, dalla ribellione a un’esistenza soffocante, consumata in uno sterile gioco delle parti.
“Robert alla rivista aveva una piccola segretaria. La più dolce creaturina del mondo e lui la trovava meravigliosa, e poi arrivai io e trovò meravigliosa anche me. Allora lo costrinsi a sbarazzarsi di lei, dopo che l’aveva portata a Provincetown da Carmel, quando aveva trasferito la sede della rivista, e non le pagò neanche il biglietto per tornare in California. Tutto per far piacere a me […]. Be’, probabilmente è vero che chi di spada ferisce di spada perisce. Non è un’immagine letteraria? […].Senti, Robert, tesoro. Lascia che ti dica una cosa. Non ti dispiace, vero? Non fare scene con le tue ragazze. Cerca d’evitarle. Perché non sei capace di fare scene senza piangere, e poi ti autocommiseri al punto che non ricordi più quel che ha detto l’altra persona. Andando avanti così, non riuscirai mai a ricordare neanche una conversazione. Cerca invece di star calmo. Lo so che è molto difficile. Ma ricorda, lo fai per la letteratura. Dovremmo tutti fare sacrifici per la letteratura. Guarda me. Io me ne vado in Inghilterra senza protestare. Tutto per la letteratura. Dobbiamo tutti aiutare i giovani scrittori”.
Hemingway, che nella storia si ritaglia uno spazio vestendo i panni dell’io narrante Jack Barnes (e poco importa che al principio del libro egli si premuri di scrivere che nessun personaggio è il ritratto di una persona reale), reso impotente dalle lesioni riportate al fronte e prigioniero di un amore impossibile (per Brett Ashley, che durante la guerra, da infermiera, si prese cura di lui e perse l’uomo che amava, e da quel momento decise di rincorrere la propria autodistruzione offrendosi all’anestesia dell’alcol e alla libertà illusoria della promiscuità sessuale), dà vita a un romanzo a chiave che profuma d’autenticità, saturo di un senso di sconfitta che lascia scossi, sgomenti, ma che in qualche misteriosa maniera riusciamo senza fatica a comprendere. Come se gli appartenessimo.
Mens morbida in corpore sano; così aveva definito Ernest Hemingway il critico e traduttore russo Ivan Kashkeen (lo scrive Fernanda Pivano nell’introduzione all’opera completa dello scrittore americano edita da Mondadori, collana I Meridiani); la sua scrittura, a parere di Kashkeen, conteneva insieme, in una ricchezza rigogliosa e contraddittoria, “il pessimismo sanguigno e la disperazione repressa, la sincerità cinica di tante sue pagine e il suo cattolicesimo scettico, l’abile rozzezza e la complicata semplicità, la brevità tautologica dei suoi dialoghi e la precisione dei suoi accenni, infine il suo spasmodico sorriso senza gioia: groviglio di conflitti che ha le sue radici nella tragica disarmonia Mens morbida in corpore sano, la discordia mentale che minaccia di provocare la disintegrazione del corpo e la sua distruzione”. Di tutto questo parla Fiesta (il sole sorgerà ancora), in un abbozzo di discorso che non è che il primo capitolo di una lunga, lunghissima riflessione.
Eccovi l’incipit dell’opera (traduzione di Ettore Capriolo per Mondadori). Buona lettura.
Robert Cohn era stato un tempo campione di pugilato di Princeton, categoria pesi medi. Non crediate che questo, come titolo pugilistico, a me faccia una grande impressione, ma per Cohn significava molto. Non gli importava niente della boxe, anzi la detestava, ma l’aveva imparata, con fatica e sino in fondo, per reagire a quel senso d’inferiorità e di insicurezza che gli derivava a Princeton dall’essere trattato come un ebreo. Traeva insomma una certa gioia intima dalla consapevolezza di poter mettere fuori combattimento chiunque avesse fatto lo spocchioso con lui, ma, essendo un ragazzo molto timido e assolutamente perbene, non si batté mai se non in palestra. Era il miglior allievo di Spider Kelly.