Recensione di “Coppie” di John Updike
In base a quali indizi è possibile diagnosticare, con assoluta certezza, la malattia, la degenerazione morale e civile di una società? Quanto lontano da ciò che è universalmente ritenuto accettabile, dignitoso, buono, possono spingersi i suoi componenti per essere ritenuti colpevoli, e come tali processati e condannati?
È sufficiente che massacrino, nel privato delle loro vite, il legame matrimoniale, che ignorino il dovere del reciproco rispetto e dimentichino le responsabilità verso la famiglia seppellendo la propria coscienza di uomini e di genitori in un’artificiosa normalità quotidiana consumata dall’interno, come un corpo devastato dal cancro, da finzioni, menzogne, e squallidi giochi delle parti? Oppure è necessario spingersi oltre, contaminare la propria singola esistenza con quella del mondo e reagire ai suoi drammi, alle sue cadute e alle tragedie nello stesso modo in cui si reagisce al dolore di chi ci è accanto, all’amarezza di una moglie tradita, al pianto deluso di un figlio? Domande che viene naturale porsi leggendo Coppie di John Updike, agrodolce riflessione su un’America appannata e stanca (la storia, è bene dirlo, è ambientata al principio degli Anni Sessanta), priva di grazia, orfana dell’amore di Dio (che, ci dice lo scrittore americano con compiaciuta perfidia, sembra trarre maggiori soddisfazioni dal dedicare le sue attenzioni ad altri grandi attori geopolitici, come per esempio la Russia) e somigliante a “una bambina non amata e ingozzata di pasticcini, come una moglie di mezza età a cui il marito porti a casa un regalo dopo ogni viaggio perché le è stato infedele”, almeno finché non si giunge al tragicomico climax del romanzo: un cocktail, ormai organizzato nei minimi dettagli (è stato ordinato da bere e da mangiare, persino gli smoking sono stati prenotati, e gli abiti da sera delle signore consegnati), confermato la sera stessa dell’omicidio del presidente Kennedy dai protagonisti della vicenda, un gruppo di coppie (tutte benestanti, alcune decisamente ricche) che risiede nel tranquillo e snob sobborgo di Tarbox, nel New England, dove le giornate scorrono tra chiacchiere oziose, amatoriali partite a tennis (rigorosamente di doppio misto) e lunghe cene, trasformate in sfacciate occasioni di corteggiamento o sfruttate per consumare piccole vendette, prendersi vane rivincite. Quando dunque un corpo sociale oltrepassa il punto di non ritorno e, ormai incapace di riconoscersi come tale, va incontro alla propria dissoluzione? Quando, sembra rispondere Updike, ha talmente paura delle proprie responsabilità, è così terrorizzato dall’idea di rinunciare al desiderio di onnipotenza cui ci costringe l’età adulta (e che le allegre coppie di Tarbox si illudono di perpetuare nel loro fragile girotondo di tradimenti, che dovrebbero rimanere segreti e sono invece già noti a tutti ancora prima che si consumino), da giustificare ogni deriva, ogni peccato, ogni ignominia, da trovare un nome presentabile, borghese, per qualsiasi nefandezza, come quello di veglia funebre per un osceno party goduto in uno dei giorni più cupi della storia d’America.
Coppie, che quando venne pubblicato suscitò scandalo (più per la sua sprezzante sincerità che per il linguaggio esplicito), è un romanzo potente, che coinvolge, seduce, attrae, muove al riso e alla rabbia, spinge a schierarsi ma mette in guardia dalle facili certezze. Come scrive Giorgio Montefoschi nella prefazione all’edizione pubblicata da Guanda, con l’entusiasmo semplice e sincero del lettore, “è un romanzo bellissimo. Certamente, il migliore di Updike. E Updike, vogliamo dirlo, è uno dei grandi scrittori americani del Novecento”.
Eccovi l’incipit (la traduzione è di Attilio Veraldi). Buona lettura.
«Che te ne sembra della nuova coppia?». Gli Hanema, Piet e Angela, si stavano spogliando. La stanza da letto era a soffitto basso e in stile coloniale, con i pannelli di legno dipinti in quella gradazione di bianco commercialmente nota col nome di guscio d’uovo. Una mezzanotte primaverile incalzava contro le finestre fredde.
«Oh,» rispose Angela, evasiva «mi sembrano giovani». Era una bella donna, bruna di capelli, morbida, trentaquattrenne, che stava ingrassando ai fianchi e alle natiche ma conservava belle caviglie sottili da fanciulla e una maniera anch’essa giovanile, cauta e inceppata, di muoversi, come se l’aria pura fosse stipata alla rinfusa di stracci.