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Al principio di un nuovo viaggio

Recensione di “I Guermantes – Alla ricerca del tempo perduto III” di Marcel Proust

Marcel Proust, I Guermantes, Einaudi
Marcel Proust, I Guermantes, Einaudi

Morbida, sinuosa, fluida, declinata senza un ordine apparente, in una libertà piena e sorprendente che sembra rendere superfluo qualsiasi punto di riferimento, la memoria, l’inesauribile tesoro narrativo di Marcel Proust, nutrita dalla sovrabbondante ricchezza della prosa dell’autore francese, senza sosta si rinnova, quasi partecipasse in prima persona alle esperienze e ai vissuti di cui dovrebbe essere semplicemente il contenuto, lo scrigno, e diviene stupore, riscoperta, attualità.

Nell’intensità emotiva di una scrittura a tal punto trasparente e sincera da sfiorare la nudità della confessione, il ricordo abbandona ogni sovrastruttura, ogni giudizio precostituito e si affaccia al mondo con curiosità virginale, di fanciullo, allo stesso modo godendo dell’ebrezza dei suoi splendori e patendo l’abisso delle sue miserie. Narrata come fosse l’oggi, la stagione di vita dell’autore che costituisce la trama de I Guermantes, terzo libro della Recherche (dei primi due ho già scritto in questo blog), esplora il mistero dell’uomo e dei suoi affetti; nei salotti raffinatissimi dell’aristocrazia di sangue, dove tutto, persino il reciproco sorridersi, o l’ammiccare improvviso, obbedisce a rigide regole di etichetta, Proust, voce narrante e personaggio, osserva come se non conoscesse nulla, come se a quell’ambiente fosse del tutto estraneo. Non c’è, naturalmente (né avrebbe senso che ci fosse), ombra di critica sociale nel letterario spaesamento dello scrittore (rampollo dell’alta società borghese), quanto piuttosto il riflesso di un cauto procedere, l’eco di una ricerca che ha la natura umana (e il suo carattere multiforme, sfuggente, imprevedibile) come proprio oggetto. Nel guardare agli uomini, a ciò che fanno, pensano, a quel che mostrano e soprattutto alle cose che nascondono, che si preoccupano di celare, nel raccontare l’eterno ritorno del loro esistere (che è l’esistere di ciascuno di noi), Proust annulla ogni distanza tra passato e presente; certo, le descrizioni perfette della vita di società riportano il lettore a un mondo scomparso, tuttavia non c’è nulla di davvero essenziale nel richiamo al passato; mai come in questo romanzo (e nel successivo Sodoma e Gomorra), l’ambientazione, pur magnifica per cura del dettaglio, è ridotta a sfondo, a macchia di colore dalla quale emerge, con i suoi tratti marcati, inconfondibili, l’essere umano. E con lui il suo mondo interiore, che Proust indaga con rispettoso pudore e insieme vorace curiosità, lasciandosi sedurre dai suoi chiaroscuri, e affascinare e terrorizzare dalla sua complessità, fino al momento in cui la sua sete di conoscere, il suo bisogno di scoprire, lo conducono oltre l’ultima delle soglie, dove non è più possibile occultare nulla. È allora che al lettore e al narratore insieme (come fossero una stessa persona) si rivela l’omosessualità del barone di Charlus, uno dei protagonisti del romanzo, verità scomoda e sconvolgente per il severo indirizzo morale del tempo cui tuttavia Proust non rifiuta di accostarsi. Con timore, ritrosia, ma anche con pietà.

Nel disegno complessivo della Recherche, I Guermantes si può considerare una specie di romanzo sui generis, un lavoro capace di rispettare il respiro narrativo dei libri che l’hanno preceduto e insieme un’opera che segna una svolta, che introduce una dimensione nuova della memoria e in essa trascina lettore e personaggi. In questa tappa del grand tour proustiano, dunque, un nuovo viaggio ha inizio; ignoti sono i lidi cui può condurre, ma ad essi, e ben più profondamente di quanto riusciamo a immaginare, apparteniamo. 

Eccovi l’incipit (la traduzione, edizione Mondadori, collana I Meridiani, è di Giovanni Raboni). Buona lettura.
 
Il pigolio mattutino degli uccelli sembrava insipido a Françoise. La minima parola pronunciata dalle donne la faceva sussultare; disturbata da ogni loro passo, se ne chiedeva il perché: avevamo traslocato. Non  che, al sesto piano della nostra abitazione, i domestici si muovessero meno; ma quelli li conosceva; i loro andirivieni se li era fatti amici. Adesso, persino al silenzio prestava un’attenzione dolorosa. E poiché il nostro nuovo quartiere pareva tanto calmo quant’era rumoroso il boulevard sul quale davano prima le nostre finestre, il canto d’un passante (nitido anche quando, da lontano, giunge fievole come un motivo d’orchestra) faceva venire le lacrime agli occhi a Françoise in esilio.

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