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Il demone e il filosofo

Recensione di “Il Vij” di Nikolaj Gogol

 

Nikolaj Gogol, Il Vij, Sellerio Editore
Nikolaj Gogol, Il Vij, Sellerio Editore

Una prosa al crocevia tra tradizione popolare e mito, un linguaggio composito, che della prima ha l’asciutta essenzialità, il pratico insegnamento morale e l’elogio della scaltrezza, considerata come una delle forme più alte di saggezza, e della seconda la lussureggiante ricchezza dell’invenzione, la tensione della sorpresa, l’insinuante attrattività della paura, la suggestione del sogno e il dolce canto ipnotico della fantasia.


Un cammino letterario di splendida originalità e di leggerezza inviolabile, un sussurro di bellezza e di terrore racchiuso in una manciata di pagine, un intreccio di emozioni confinato in un perimetro narrativo di dialoghi serrati e dettagliatissimi quadri d’ambiente. Tutto questo attende il lettore che si accinge ad affrontare Il Vij di Nikolaj Gogol, un racconto tanto breve quanto intenso, che ruota attorno a una figura fantastica, primo nutrimento di ogni genere di storie, quella del Vij, creatura inafferrabile a metà tra spirito, demone e aberrazione di natura (il Vij, nell’immaginario collettivo del popolo russo, è il re degli gnomi, e a caratterizzarlo sono in special modo gli occhi, le cui palpebre arrivano fino a terra), e al suo contraltare umano, il filosofo Chomà Brut, sintesi di un’umanità piena e imperfetta, sordida e ingenua, e più di ogni altra cosa semplice. Il filosofo Brut, scrive Gogol, “era d’indole allegra, gli piaceva molto star coricato e fumare la pipa; se poi beveva, non mancava di far venire dei musicanti e di ballare il tropàk. Egli assaggiava sovente lo staffile di cuoio, dicendo, con indifferenza assolutamente filosofica, che da quel che deve succedere non c’è scampo”. Solare espressione dell’energia della vita, della primordiale bontà del mondo che quotidianamente sperimentiamo, o quantomeno del suo sostanziale equilibrio, Chomà Brut affronta, nell’evolversi del racconto, il rovescio della medaglia di tutto che egli rappresenta (e per cui l’autore parteggia, senza tuttavia mai commettere l’errore di lasciarsi vincere dalla sua partigianeria e dunque evitando di compromettere la fragile perfezione della sua opera); l’oscurità, reale o immaginaria, del pentimento, del rimorso, della vigliaccheria, qualsiasi cosa che ci impedisca di essere noi stessi, e di esserlo a dispetto di quel che gli altri si aspettano da noi, il glaciale richiamo della morte, il lento consumarsi nella soffocante spirale del dolore.

In un’ideale scacchiera che alterna gelidi labirinti boschivi alla disadorna solitudine di stanze sigillate in un inutile sforzo di protezione, si consuma la lotta tra il filosofo e una vecchia strega, una battaglia che investe tanto il piano fisico quanto quello spirituale e dove alle prove di forza seguono gli scongiuri, le preghiere, gli esorcismi, finché la megera non rivela il suo vero volto e quello che sembra essere il trionfo del filosofo (e della vita) non muta, nel corso di una drammatica notte, nel suo contrario e poi, in un fragoroso, inarrestabile franare di tragici eventi, nella dissoluzione di ogni cosa, con il Vij, chiamato in soccorso dalle entità del male, che, ebbro della vittoria ottenuta sull’uomo e sulla chiesa che lo ospitava, non si accorge dell’approssimarsi della propria fine. “Il sacerdote che entrò si arrestò alla vista di una tale profanazione del santuario di Dio e non osò celebrare la messa funebre in un simile luogo. E così la chiesa rimase per sempre coi mostri aggrovigliati nelle porte e nelle finestre, si ricoprì di una selva di radici, d’erbacce, di pruni selvatici, e ora più nessuno potrà ritrovare la strada per giungervi”.

Storia d’avventura, di terrore, di fantasia, racconto buono per ogni stagione, da narrare accanto al fuoco o nell’accogliente calore di un letto; memoria condivisa da donare come un’eredità alle generazioni che verranno, lascito testamentario di una comunità; impeccabile e vanitoso esercizio di stile di uno scrittore di assoluto, inconfondibile talento. La natura di questo piccolo gioiello letterario è multiforme, proprio come il suo “eroe”. Del resto, non è la comprensione del Vij quel che conta; la sola cosa importante è il nostro incontro con lui, e ciò che, grazie a Gogol, questo misterioso essere riesce a trasmetterci.

Eccovi l’incipit. La traduzione, per Sellerio Editore, è di Michele Vranianin. Buona lettura.

Non appena rintoccava in Kiev di mattina la campana abbastanza squillante che pendeva al portone del monastero dei Fratelli, ecco che da tutta la città accorrevano a frotte gli scolari e i bursaki. I grammatici, i retori, i filosofi e i teologi, con i quaderni sotto l’ascella, si trascinavano in classe. I grammatici erano ancora piccolini: camminando si davano degli spintoni e leticavano fra loro con la voce più acuta di soprano; quasi tutti avevano indosso abiti sbrindellati e sudici, e le tasche loro erano eternamente piene di ogni sorta di cianfrusaglie, come: aliossi, fischietti fatti con piccole penne, avanzi di focaccia, e talora persino qualche usignoletto, che mettendosi improvvisamente a gorgheggiare in mezzo all’insolito silenzio della classe, procurava al suo padrone i debiti colpi di bacchetta su entrambe le mani, e qualche volta anche le verghe di ciliegio

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