Recensione di “Il giovane Holden” di J.D. Salinger
Lo stile asciutto, diretto; la narrazione in prima persona, che rende superflua qualsiasi mediazione e trascina immediatamente il lettore nel bel mezzo del racconto; la prosa ruvida, potente, e fluida come riesce a essere soltanto il linguaggio parlato; il protagonista adolescente, icona di una generazione e poi di infinite altre, smarrito come lo siamo tutti di fronte alla vita, audace e ingenuo nell’affrontarla a muso duro, e spavaldo, spaventato, sicuro di sé e insieme talmente roso da dubbi e incertezze da non aver la forza di aprire gli occhi, o di respirare.
E ancora l’unità temporale, che racchiude gli eventi raccontati nell’arco di una manciata di ore (un fine settimana in tutto) e il mondo indistinto e soffocante degli adulti, un altro da sé inevitabilmente giudicato con sospetto e pregiudizio, recinto di filo spinato di regole e modelli di comportamento cui manca l’essenziale, una sincera disponibilità all’ascolto, alla comprensione e al perdono, e che per questa ragione non può che scatenare ribellioni, suscitare disprezzo, alimentare tragiche solitudini: “Vorrei ficcarti un po’ di buonsenso in quella testa, figliolo. Sto cercando di aiutarti. Sto cercando di aiutarti, se mi riesce. Ed era proprio vero, tra l’altro. Si vedeva. Solo che ci trovavamo proprio ai due poli opposti, ecco tutto. – Questo lo so, professore, – dissi – Grazie infinite. Dico sul serio. Gliene sono veramente grato. Davvero. – Poi mi alzai dal letto. Ragazzi, non sarei potuto restar seduto su quel letto per altri dieci minuti nemmeno per salvare la pelle”. Romanzo multiforme (di formazione, d’avventura, ma anche ritratto di vita, diario, confessione, manifesto), Il giovane Holden di J.D. Salinger, pubblicato per la prima volta nel 1951, è un’opera assai difficile da affrontare, non tanto per i suoi innumerevoli meriti letterari (parte dei quali ho elencato sopra), quanto piuttosto per l’immenso successo che ha avuto e per l’influenza che ha esercitato. Il giovane Holden Caulfield, protagonista del romanzo, e il suo creatore toccano corde che riguardano tutti; parlano la lingua universale dei sentimenti, delle paure, delle aspettative e del timore del futuro, dei sogni accarezzati e infranti. La sincerità d’accenti di questo sedicenne che pur senza quasi essersi affacciato alla vita riesce a raccontarla come se già la conoscesse, si fa specchio delle nostre ansie e dei nostri entusiasmi, ci permette di riconoscere come nostri i suoi spazi, quelli familiari, amati e odiati, e quelli personali, dove a scalpitare è solo la libertà, il diritto di desiderarla e l’ansia di esercitarla. “Restai nella stanza da bagno per circa un’ora, prendendo il bagno e via discorrendo. Poi tornai a letto. Mi ci volle del bello e del buono per addormentarmi – non ero nemmeno stanco – ma alla fine mi addormentai. In realtà, però, avevo voglia di suicidarmi. Mi sarei buttato dalla finestra. Probabilmente l’avrei anche fatto, se fossi stato sicuro che qualcuno mi avrebbe coperto appena toccavo terra. Non mi andava che un mucchio di ficcanaso stessero lì a guardarmi tutto sporco di sangue”.
Naufrago, diverso (in più di un’occasione dice di sé di essere matto, completamente matto), sconfitto, Holden Caulfield, a differenza di quel che ci si aspetterebbe, colpisce per la sua affinità con noi, non per l’alterità che di continuo si sforza di sottolineare. Studente mediocre eppure così perspicace nei confronti della bellezza da riuscire a dar forma compiuta all’emozione che si prova dinanzi alla parola scritta quando si fa espressione di quel che proviamo, immaginiamo o pensiamo, adolescente inesperto e acerbo e tuttavia così assetato e affamato d’esistenza e d’amore da accettare di mettere in gioco tutto se stesso per non ritrovarsi, un giorno, carico di rimpianti, a piangere su quel che sarebbe potuto essere, questo giovane è quel che ognuno di noi, magari soltanto per un attimo, è stato, o ha voluto essere. E che non è più stato capace di dimenticare.
Eccovi l’incipit. La traduzione (splendida), per Einaudi, è di Adriana Motti. Buona lettura.
Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e com’è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David Copperfield, ma a me non mi va proprio di parlarne. Primo, quella roba mi secca, e secondo, ai miei genitori gli verrebbero un paio d’infarti per uno se dicessi qualcosa di troppo personale sul loro conto. Sono tremendamente suscettibili su queste cose, soprattutto mio padre. Carini e tutto quanto – chi lo nega – ma anche maledettamente suscettibili.