Recensione di “Oltre il confine” di Cormac McCarthy
Un romanzo d’amore, un romanzo d’avventura, un romanzo di formazione. E il racconto di un viaggio, del pensoso peregrinare di un’anima fin nel cuore oscuro e intangibile della natura. Oltre il confine, secondo volume della Trilogia della Frontiera di Cormac McCarthy (del primo, lo splendido Cavalli selvaggi, ho già scritto in questo blog), è un miracolo di scrittura, una vertigine di bellezza, perfezione stilistica, profondità tematica e intensità emotiva che sembra avere il potere di reinventare il concetto stesso di romanzo.
Il grande autore americano soffia vita nelle parole, costruisce la realtà (delle persone, delle cose, del cielo e della terra, divinità mute e immortali che nude si consegnano all’uomo e alla sua pietà derelitta, alla sua zoppicante saggezza) nel momento stesso in cui la descrive; nella sua prosa risuona l’eco sovrumana e intoccabile che accompagna l’atto stesso del sorgere, del nascere e insieme riverbera l’attonito stupore della creatura, immagine e simbolo della sua fragilità. Per questo il cammino che compiono i suoi eroi è un’odissea di polvere e sangue, un precipitare nella vita doloroso, atroce e meraviglioso come un parto; per questo tutto quel che fanno porta con sé la gravità delle decisioni definitive e una tragica assenza di redenzione.
È dunque in qualche misura un destino segnato quello di Billy Parham, giovane protagonista di Oltre il confine, che dopo aver dato la caccia e catturato una lupa che si accanisce contro gli animali dell’allevamento paterno decide di non consegnarla al genitore (che di certo la ucciderebbe) e di dirigersi con lei verso le montagne del Messico per restituirla al suo mondo. È l’istinto a guidare Billy, qualcosa di primordiale e sfuggente che tuttavia lui percepisce nel momento in cui comprende come fermare l’animale (“La lupa è come il copo de nieve” gli rivela un vecchio. “Fiocco di neve. Puoi afferrare un fiocco di neve, ma quando ti guardi in mano non c’è più. Magari vedi questo dechado. Ma prima di poterlo guardare, è scomparso. Se lo vuoi vedere, devi scendere a patti con la sua natura. Se lo afferri, lo perdi. E da dove va a finire non si ritorna più. Neppure Dio è in grado di riportarlo indietro […]. Se riuscissi a respirare con forza sufficiente potresti annientare il lupo con un soffio. Come si soffia via il copo. Come si spegne una candela. Il lupo è fatto come è fatto il mondo. Non si può toccare il mondo. Non si può tenerlo in mano perché è fatto solo di respiro”). Le pagine di McCarthy spalancano verità, il suo linguaggio semplice, diretto, essenziale eppure ricco dell’infinita ricchezza del mondo (inafferrabile fino al momento in cui non comprendiamo di esserne parte, come lo sono i sassi, i fiumi, le nuvole) è bagnato tanto d’eternità quanto di una umanissima forma d’umiltà, e racconta di un tempo che pur conoscendo non possediamo, quello regolato dall’alternarsi di albe e tramonti, scandito dalla circolarità del vivere e morire della terra e dei suoi frutti, vissuto nei sogni e in quel che facciamo per renderli veri.
E allora ecco che il viaggio di Billy, del fratello minore Boyd e della lupa dagli occhi gialli e indecifrabili si fa metafora di ogni possibile viaggio, del fugace scintillio da fuoco artificiale della fantasia come dello strappo che segna un cambiamento radicale tra ciò che è stato fino a quel momento e ciò che verrà (“Mangiò l’intera preda insieme alla lupa e poi rimasero seduti fianco a fianco davanti al fuoco. La lupa alzava il muso allarmata a ogni scoppiettare della brace. Quando la toccava, il ragazzo sentiva il pelo sollevarsi e il corpo tremare come quello di un cavallo. Le parlò della propria vita, ma non riuscì a tranquillizzarla”), finché il giorno, perfino il più lungo, il più felice o il più infelice di tutti, non cede il passo al buio della notte, al suo mare di pece che tutto abbraccia.
Quando si spostarono a sud della Grant County, Boyd era un bambino e la nuova contea chiamata Hidalgo aveva solo qualche anno più di lui. Nella terra che avevano lasciato erano sepolte le ossa di una sorella e della nonna materna. La nuova contea era fertile e selvaggia. Si poteva cavalcare fino al Messico senza incontrare mai una staccionata. Portava Boyd davanti a sé sull’arcione e gli diceva i nomi di tutto ciò che vedevano, terra e alberi e uccelli e animali, in spagnolo e in inglese. Nella casa nuova dormivano in una stanza accanto alla cucina e la notte a volte stava sveglio e al buio ascoltava il respiro del fratello addormentato e gli sussurrava i progetti che aveva per entrambi e la vita che avrebbero fatto.
Lo sto rileggendo in questi giorni. Mi mozza il fiato, letteralmente.
Concordo con te. Buona lettura!
Ho iniziato il libro.Sono arrivata al punto in cui il ragazzo trova la lupa nella trappola,con una zampa ferita. Mi sono fermata per un attimo sopraffatta dalla quasi certezza che sarebbe giunta la sua fine , ma un sottile desiderio mi porta a pensare che il ragazzo nn sia capace di consegnarla e ucciderla, che si creerà un legame intenso. Non vedo affetti, relazioni, la casa, ma spazi infiniti,selvaggi. Una scrittura bellissima.
Ora continuò…
Buongiorno e grazie del tuo messaggio. McCarthy a mio giudizio è (era, purtroppo) un gigante, in assoluto uno dei più grandi. Sentiremo molto la sua mancanza. Buon proseguimento di lettura e se ti va continua a seguire il blog.
Paolo