Recensione di “Delitti esemplari” di Max Aub
Immaginate un assassinio. E chiedetevi quale movente, per un tale atto, sia più naturale, universale, comprensibile e condivisibile (squisitamente in via di principio, s’intende) del puro odio, di quell’accesso di violenza cieca, e rabbia, e furore, e desiderio di annientamento che alberga in ciascuno di noi, che silenzioso pulsa nei più inviolabili recessi del nostro cuore infiammando pensieri e nutrendo le più oscure fantasie. Uccidere dunque. Semplicemente.
E per nessun’altra ragione che non sia la voglia di farlo. Bandito l’inutile ricorso (da dilettantesca trama gialla) a ragioni estrinseche (denaro, gelosia, vendetta o qualsiasi altra cosa possa venire in mente), spogliata la più terribile delle azioni della sua veste antropologica, psicologica e letteraria, quel che resta è l’omicidio in sé e per sé, il suo archetipo, la platonica rappresentazione ideale della morte e di colui che la dispensa: l’uomo. Ed è proprio quest’uomo, omicida per istinto, omicida perché uomo, inquietante rovescio della medaglia bel “buon selvaggio” descritto da Jean-Jacques Rousseau, il protagonista di un’opera bizzarra e affascinante, Delitti esemplari dello spagnolo Max Aub, scrittore imprevedibile e avvincente, suggestivo nei suoi arditi e beffardi equilibrismi tra fantasia e realtà (la sua biografia dell’inesistente pittore Jusep Torres Campalans in qualche misura ricorda il Pierre Menard, novello autore del Don Chisciotte, raccontato da Jorge Luis Borges in Finzioni) e nello stesso tempo capace di una prosa diretta, spigolosa e veemente, che lascia il lettore senza fiato e quasi impossibilitato a comprendere quanto di questo scrivere affannoso e tuttavia limpido sia frutto di mestiere e quanto invece si debba a una talentuosa, e tumultuosa, urgenza comunicativa. Volutamente scaltro, disseminato di trappole e false piste, il cammino letterario di Aub è un aperto atto di sfida; egli presenta i suoi lavori come futili esercizi, passatempi, curiosità per perdigiorno; narra con affettata condiscendenza, come se della sua fatica non gli importasse minimamente, e squaderna i suoi temi come inciampi di un cammino privo di meta, cose nelle quali si è imbattuto per un capriccio del destino. “Non gettiamo la croce addosso a nessuno”, scrive nel prologo di Delitti esemplari raccontando la genesi del libro e il modo in cui sono state raccolte le confessioni degli omicidi che lo compongono, “si è perduta la semenza, forse a causa del tempo cattivo. Il sale della saggezza non muove al riso; del resto non ce l’hanno più neppure i saggi, i quali si mordono la coda dopo essersi lasciati fagocitare dai loro figli. Cosa abbiamo coltivato? Cosa abbiamo raccolto? Ci resta soltanto il gioco, che dipende dal caso. C’è chi, felice, non si stanca mai di giocare. Io sì. E anche coloro che qui si confessano: il miope, il presbite, e intanto si danno botte da orbi”.
Geniale architetto di labirinti d’apparenza, irrazionalità e caos, Max Aub rivela nel momento stesso in cui nasconde, mostra il procedere dell’analisi razionale (o molto più modestamente, se si vuole, dell’opinione personale) dove sembra trovi spazio soltanto l’immediatezza dell’emozione – “Era più intelligente di me, più ricco di me, più generoso di me, era più alto di me, più bello, più disinvolto, vestiva meglio, parlava meglio; se voi credete che queste sono scuse, siete proprio stupidi. Ho sempre pensato alla maniera di sbarazzarmi di lui. Feci male ad avvelenarlo: soffrì troppo. Questo sì che mi dispiace. Avrei voluto che morisse di colpo” – incalza, provoca e sconvolge proprio quando mette tra parentesi il suo ruolo di autore a favore di quello passivo e inerte di cronista, di occasionale testimone (“Uccise la sorellina la notte della Befana per tenere tutti i giocattoli per sé”). Ma non inganni la confusione costruita ad arte dello scrittore spagnolo; una via d’uscita dalla sua stanza dei giochi, infatti, esiste. È la scomposizione del generale del particolare, dell’universale nel soffocato microcosmo del dettaglio la chiave d’accesso a quel particolarissimo “enigma letterario” chiamato Max Aub; comprendere che la ragione del suo essere scrittore coincide perfettamente con il significato di quel che scrive, dunque, non comporta altro che la piena accettazione delle regole del suo mondo, un mondo nel quale la verità esiste ma non ha il potere di salvare niente e nessuno, perché come tutte le cose che vivono è destinata a perire.
Eccovi l’inizio del prologo. La traduzione, per Sellerio Editore, è di Lucrezia Pannunzio Cipriani, ed è stata fatta sull’edizione del libro curata personalmente da Max Aub nel 1957. Buona lettura.
Questo è materiale di prima mano: trasferito direttamente dalla bocca alla carta, sfiorando appena l’orecchio. Confessioni senza storia: Chiare, confuse o dirette, non hanno altro scopo che di spiegare il furore. Raccolte in Spagna, in Francia ed in Messico nel corso di più di vent’anni, non potevo – oggi – migliorarle: questo spiega la loro semplicità. Certamente mi furono fatte con una precisa intenzione, quella di riaccostarsi a Dio e sfuggire così il peccato. Gli uomini sono esattamente come furono creati, e volerli ritenere responsabili di ciò che, d’un tratto, li spinge ad uscire da se stessi, è una pretesa che non condivido. Gli anni mi hanno aperto alla comprensione. Le ragioni che li hanno spinti al crimine sono raccontate in tutta franchezza, forse con un unico desiderio, quello di lasciarsi trascinare dalla loro pena. Ingenuamente – secondo me – dicono grandi verità.