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Il console che abitò all’inferno

Recensione di “Sotto il vulcano” di Malcolm Lowry

 
Malcolm Lowry, Sotto il vulcano, Feltrinelli
Malcolm Lowry, Sotto il vulcano, Feltrinelli

“Una Divina Commedia ubriaca”. Così ha definito l’autore, l’inglese Malcolm Lowry, la sua opera maggiore, quel Sotto il vulcano unanimemente considerato uno dei romanzi più significativi del Novecento, scritto con il furore ossessivo della confessione, alimentato dall’urgenza bruciante del senso di colpa, dal bisogno insopprimibile di espiazione e nonostante ciò mascherato, quasi pagina dopo pagina, da storia d’amore, metafisica riflessione sul senso del tempo, dell’esistere e di Dio, enciclopedico (e volutamente sterile) saggio sui più disparati campi del sapere umano (dall’antropologia all’esoterismo alla chimica), e non ultimo dal delirio lucido di una deriva individuale cui è rimasta soltanto la forza di guardarsi allo specchio.

Il tragico racconto dell’ultimo giorno di Geoffrey Firmin, console di un’anonima cittadina messicana (Quauhnahuac) cresciuta all’ombra di due vulcani, è un labirinto di emozioni, ricordi e rimpianti bagnato di disperazione. Intrise di un onnipresente, incancellabile dolore, le parole di Lowry non lasciano scampo; disegnano, per il protagonista del romanzo (che ha più di un punto di contatto con lo scrittore inglese) e per i suoi compagni (l’ex moglie Yvonne, immensamente amata e poi perduta), il fratellastro Hugh, l’amico di una gioventù ricordata con nostalgia e rabbia Laruelle, un destino di sconfitta cui è impossibile sfuggire. Esteta impietoso della sofferenza, cantore della disgregazione, Malcolm Lowry esplora ogni angolo del cammino di perdizione dei suoi eroi, e alla piena consapevolezza di Firmin (del suo essere un alcolizzato all’ultimo stadio, di non poter in nessun modo recuperare il rapporto con Yvonne, malgrado lei, a un anno di distanza dalla separazione, sia tornata da lui, della pietà mista a odio riservata a Hugh, dell’incapacità di perdonare Laurelle per un presunto torto patito anni prima, quando ogni cosa era diversa e la felicità uno sbocco possibile per le vite di entrambi) oppone, di volta in volta, le speranze, i sogni, le richieste (e le offerte) d’aiuto, i tentativi di persuasione degli altri; e nel racconto dei fallimenti cui si risolve ognuna di queste iniziative (perché non esiste redenzione possibile per Firmin) lo scrittore chiude il cerchio abbracciando, nella sconfitta, la condizione di uno, di molti, di tutti. “Sorprendente al massimo era il fatto che il Console non solo appariva fresco e pieno di salute, ma non rivelava la minima traccia di dissipazioni. La verità è che egli non aveva avuto nemmeno prima l’aspetto torvo di un vecchio consunto dal vizio: perché avrebbe dovuto averlo, dato che aveva soltanto dodici anni più di Hugh? Pure, si sarebbe detto che il destino aveva fissato la sua età in un punto non identificabile del passato, quando il suo io persistente e obiettivo, stanco forse di starsene in disparte a osservare la sua rovina, s’era alla fine staccato del tutto da se stesso, come una nave che in gran segreto esca dal porto nottetempo”.

Magmatica, fiammeggiante, insofferente a regole, sistematizzazioni, interpretazioni, la prosa di Lowry colpisce il lettore con indicibile violenza; lo getta nel bel mezzo degli accadimenti per far sì che li viva in prima persona, per intero, lo costringe ad assistere allo spettacolo (più volte ripetuto) dell’abiezione di Firmin, dell’alcolizzato Firmin, del “borracho” Firmin, perché comprenda cosa davvero abbia significato la sua resa alla bottiglia, lascia che assista ai goffi tentativi di seduzione di Hugh nei confronti di Yvonne (c’è stato un tempo, infatti, in cui i due sono stati amanti, ma è ormai finito per sempre, come ogni altra cosa in quello sperduto angolo di mondo che ha nome Quauhnahuac) affinché possa sentire sulle labbra, sulla lingua e nelle viscere l’identica amarezza che tormenta Firmin (consapevole tanto della loro relazione quanto della sua responsabilità nell’averla fatta nascere). L’assenza di mediazione e di speranza che permea il testo, il procedere forsennato, febbrile della scrittura, nella quale a emergere è prima di tutto un disordinato accumulo di fatti, quasi l’autore volesse in ogni modo cercar di nascondere quel che invece ha la vitale necessità di svelare, di rendere pubblico, è la voce pura di un’anima, le cui parole non hanno altro scopo se non esprimere se stessa. Non importa quanto tenebrosa e terribile essa sia. 

Eccovi l’incipit del romanzo. La traduzione, edizione Feltrinelli, è di Giorgio Monicelli, ma a chiunque sia in grado di farlo suggerisco di leggere Sotto il vulcano in edizione originale. Buona lettura.

Due catene di montagne tagliano la repubblica approssimativamente da nord a sud, formando tra loro tutta una serie di vallate e di altopiani. Sovrastando una di queste valli, che è dominata da due vulcani, sorge, a duemila metri sul livello del mare, la città di Quauhnahuac. Si situa a sud del Tropico del Cancro, esattamente sul diciannovesimo parallelo, alla stessa latitudine circa delle Isole Revillagigedo, a ovest nel Pacifico, o, molto più a ovest, dell’estrema punta meridionale di Hawaii – o anche alla stessa latitudine del porto di Tzucox, a est, sulla costa atlantica dello Yucatan presso il confine dell’Honduras britannico, o, molto più a est, della città di Jaggernaut, in India, sul Golfo del Bengala. 

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