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Il problema, insolubile e irrinunciabile, dell’infinito

Recensione di “L’occhio e lo spirito” di Maurice Merleau-Ponty

 
Maurice Merleau-Ponty, L'occhio e lo spirito, SE
Maurice Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, SE

“La scienza manipola le cose e rinuncia ad abitarle […]. Essa è, ed è sempre stata, quel pensiero mirabilmente attivo, ingegnoso, disinvolto, quel partito preso di trattare ogni essere come «oggetto in generale», cioè come se non fosse niente per noi e tuttavia si trovasse predestinato ai nostri artifici. Ma la scienza classica conserva il senso di opacità del mondo, ed era il mondo che intendeva raggiungere con le sue costruzioni”.


Così scrive nella sua ultima opera – L’occhio e lo spirito (1960) – il filosofo francese Maurice Merleau-Ponty, riprendendo fin dal principio del saggio, nella severa critica allo “scientismo” e alla sua pretesa oggettività, la sua battaglia contro un pensiero che, rinunciando all’imprescindibile categoria (filosofica, emotiva, ma soprattutto fattuale, reale, concreta) del sé, dell’io, si priva dell’unico fondamento su cui poggia la nostra possibilità di conoscere ciò che è esatto, ciò che è bello e ciò che è buono.

Infuenzato dalla lezione di Edmund Husserl e dalla radicalità della sua fenomenologia, sedotto dall’esistenzialismo (e in modo particolare da Sartre, dal quale però si allontanerà polemicamente), Merleau-Ponty, nell’ambito del pensiero novecentesco, è una voce originale e suggestiva. Il suo richiamo all’esperienza, alla conoscenza così come siamo soliti intenderla, la sua sottolineatura della centralità della dimensione della corporeità e più ancora di quella della percezione, considerata come una sorta di “atto primo” del sapere, sono parte di un’architettura teoretica affascinante; attenta, certo, a non perdersi in astrazioni sterili, a evitare gli azzardi della metafisica, ma altresì lontana da ogni semplificazione eccessiva, da ogni immediatezza, e curiosa di esplorare ogni aspetto dell’agire etico-estetico-razionale dell’uomo, dal linguaggio all’arte, quest’ultima studiata nelle sue più diverse forme, dal cinema, alla letteratura, alla pittura. Ed è proprio alla pittura che Merleau-Ponty dedica L’occhio e lo spirito, interrogandola, come scrive Claude Lefort nella postfazione all’edizione italiana pubblicata da SE (collana Piccola Enciclopedia), “quasi fosse la prima volta […]. Egli cerca, una volta di più, le parole dell’inizio, parole, per esempio, capaci di definire ciò che costituisce il miracolo del corpo umano, il suo inesplicabile prender vita, non appena avviato il muto colloquio con gli altri, il mondo e se stesso – e anche la fragilità di tale miracolo”.

In questa indagine “archeologica”, rinnovata, che dalla fenomenologia trae la forza (teorica e programmatica) di spingersi fin dentro il cuore del proprio oggetto di studio, Merleau-Ponty prende le mosse da noi, dal nostro “esserci”, per giungere a ciò di questo “esserci” è manifestazione. Egli cita Cézanne – “La natura è all’interno” – per spiegare come quel che consideriamo lessenza dell’arte (e che si manifesta nella nostra visione dell’opera) è qualcosa che ci appartiene profondamente, con la quale abbiamo una comunanza di natura: “Qualità, luce, colore, profondità, che sono laggiù davanti a noi, sono là soltanto perché risveglino un’eco nel nostro corpo, perché esso li accolga”. Il senso del lavoro pittorico, dunque, riposa nella sua contemplazione, nell’atto di vedere ciò che è rappresentato; il soggetto del quadro e il soggetto che lo esamina esistono su uno stesso piano, si compenetrano, e pur non arrivando a fondersi restano comunque uniti in un modo che non è possibile ignorare. Così l’arte (quella figurativa in particolare) diviene, nell’interpretazione di Merleau-Ponty, una filosofia a tutti gli effetti; libera dalla concezione volgare che la vuole semplice imitazione di un “vero” che il filosofo francese non si prende neppure il disturbo di definire, essa ci colma interamente, parlando tanto all’occhio (cioè al corpo) quanto allo spirito (cioè all’anima, e alla mente): “La visione è l’incontro di tutti gli aspetti dell’Essere, come a un crocevia”. E come ogni filosofia che si rispetti, anche la pittura ha la propria ragione ultima non in una tensione verso l’esaustività ma in una costante ricerca, in un susseguirsi di ipotesi, di teoremi, di quesiti e di tentativi di risposta applicati al problema, insolubile e irrinunciabile, dell’infinito: “L’idea di una pittura universale, di una totalizzazione della pittura, di una pittura totalmente realizzata, è un’idea senza senso. Durasse ancora milioni d’anni, il mondo, per i pittori, se ne resteranno, sarà ancora da dipingere, finirà senza essere stato conquistato.

Eccovi l’inizio della già citata postfazione di Claude Lefort (la traduzione è di Anna Sordini). Buona lettura.

L’Oeil et L’Esprit è l’ultimo scritto che Merleau-Ponty poté portare a termine. André Chastel gli aveva chiesto un contributo per il primo numero di «Art de France». Egli ne fece un saggio, al quale consacrò gran parte dell’estate di quell’anno (1960) che doveva essere quello delle sue ultime vacanze. Niente faceva allora presagire l’improvviso arresto cardiaco di cui sarebbe rimasto vittima nella primavera successiva. Stabilitosi, per due o tre mesi, nella campagna provenzale, non lontano da Aix, al Tholonet, nella casa – «La Bertrane» – che gli aveva affittato un pittore, godendo del piacere che procurava un luogo fatto per essere abitato, ma soprattutto gioendo quotidianamente di un paesaggio che reca per sempre l’impronta dell’occhio di Cézanne, Merleau-Ponty reinterroga la visione, e al tempo stesso la pittura.

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