Recensione di “La casa buia” di Dennis Lehane
Un interrogativo radicale. Una domanda spietata, inevitabile, che ti costringe a fare i conti con le tue certezze, a ripensare i tuoi imperativi morali, a ridiscutere l’idea stessa di ciò che ritieni sia buono, e soprattutto di ciò che credi sia giusto. Perché i bambini soffrono? Perché muoiono? Cosa fare per proteggerli quando le leggi e le regole del vivere sociale non riescono a farlo? Fino a che punto spingersi? Quando e dove fermarsi?
Ancora una volta, dopo lo splendido La morte non dimentica (di cui ho già scritto in questo blog), Dennis Lehane, celebrato autore di romanzi gialli, torna, con La casa buia (a mio parere il suo lavoro migliore insieme a Quello era l’anno) al “thriller etico” e racconta, nel pieno rispetto dei canoni letterari del genere, una storia che colpisce al cuore, ferisce, disorienta e sgomenta. Una storia tragica e sordida, che trascina il lettore nelle più cupe profondità della natura umana e nello stesso tempo gli parla d’amore, e di sacrificio, e di tenacia, e di un senso di ribellione all’ingiustizia del mondo che non vuole e non può esaurirsi nel dolore impotente di un’anima, e che perciò reclama, pretende, qui e ora, riparazione. Una storia che sembra ricominciare proprio quando giunge al termine, perché è allora che ciascuno degli attori coinvolti è chiamato a rispondere al dettato della propria coscienza.
Scrittore di indubbio talento, impeccabile tanto nei disegni d’ambiente quanto nella caratterizzazione dei personaggi, Lehane si cala nel mondo oscuro e terribile della pedofilia: a Dorchester, quartiere degradato di Boston (e scenario di quasi tutte le sue opere), una bambina di soli quattro anni, Amanda McCready, scompare misteriosamente. La madre, Helene, è un’alcolizzata e una drogata, una donna perduta, che non si è mai occupata, perché non è mai stata in grado di farlo, di sua figlia; ma ora la piccola è sparita, con ogni probabilità è stata rapita ed è in pericolo di vita, e questo cambia tutto, persino per una poco di buono come sua madre. Del caso, oltre alla polizia di Boston, si occupano, ingaggiati dagli zii della piccola, gli investigatori privati Patrick Kenzie ed Angie Gennaro (già protagonisti di altri romanzi dell’autore americano), che decidono di concentrarsi sul traffico di stupefacenti gestito da un boss locale (in cui Helene è coinvolta), e in particolare su una consegna non andata a buon fine. Ma l’indagine è complessa, riserva continui colpi di scena, e la verità dei fatti sembra sfuggire continuamente di mano a detective e polizia; tra false piste, ipotesi, sospetti e teorie rinnovate di continuo, Lehane si muove con magistrale efficacia, giocando su differenti registri narrativi e lasciando ampio spazio ai dialoghi, spesso rivelatori della personalità dei suoi personaggi.
Come è lecito attendersi, è nelle pagine dense e avvincenti dell’inchiesta che il romanzo giallo vive e si esaurisce. La vicenda, pur tra mille difficoltà (e una parentesi difficile da dimenticare, che porta Kenzie a tu per tu con una “famiglia” di pedofili torturatori e assassini ingiustamente sospettata di aver sequestrato Amanda ma colpevole di altri rapimenti di bambini, tutti orribilmente torturati e poi uccisi), prosegue, e poco alla volta segreti gelosamente custoditi vengono a galla, finché non si scopre (una scoperta che il lettore e gli investigatori Kenzie e Gennaro fanno assieme, nello stesso momento), cosa è davvero accaduto ad Amanda McCready, chi sono i responsabili del suo rapimento e qual è la ragione che li ha spinti a sottrarre una bambina di quattro anni a sua madre.
È allora, alla sua conclusione, che il romanzo di Dennis Lehane cessa di essere un semplice thriller (per quanto esaltante, solidissimo nell’architettura e scritto magnificamente) per diventare qualcosa di ben più profondo, scomodo e terribile. È allora, nel momento in cui ogni tassello del puzzle va al posto giusto che il lettore si rende conto che la storia nella quale è stato coinvolto non finisce né bene né male, perché semplicemente non può finire. Perché, sembra dirci Lehane richiamandosi all’eternità dei temi della tragedia greca, non c’è fine alle nostre scelte, e alle conseguenze che generano. Perché dunque i bambini soffrono? Perché muoiono? E cosa siamo disposti a fare perché tutto ciò non accada? Domande che forse non hanno risposte possibili, o per le quali nessuna risposta suonerebbe adeguata, ma che comunque non possono essere ignorate. Domande che Lehane ci pone guardandoci dritto negli occhi, affascinandoci con un romanzo di rara perfezione, sublime nell’amore come nel dolore, scintillante di dolcezza e d’orrore, che avvince per oltre 400 pagine e una volta chiuso ci pesa sulle spalle come un’eredità, come una responsabilità, come una promessa da mantenere.
P.S. Come da La morte non dimentica è stato tratto il bellissimo film Mystic River, diretto da Clint Eastwood, anche da La casa buia è stato tratto un film, altrettanto intenso e riuscito, Gone Baby Gone, diretto da ben Affleck e interpretato dal fratello Casey. Li consiglio entrambi.
Eccovi l’incipit del romanzo. La traduzione, per Piemme, è di Francesco Chiari. Buona lettura.
Assai prima che il sole trovi il golfo, le barche da pesca s’avventurano nel buio. Sono quasi tutte barche per la pesca ai gamberetti e gli equipaggi sono esclusivamente maschili. Le poche donne che lavorano sulle barche se ne stanno per conto loro. Questa è la costa del Texas, dove gli uomini ritengono che le fatiche e i sacrifici dei loro predecessori giustifichino pienamente i pregiudizi, l’odio per i concorrenti vietnamiti e la diffidenza verso qualunque donna disposta a fare questo orrendo lavoro, a pasticciare nel buio con cavi pesanti e con gli ami che ti trapassano le nocche. Le donne, dice un pescatore mentre il capitano riduce i giri del motore a un basso brontolio e il mare di ardesia si mette a rollare, dovrebbero essere come Rachel. Quella sì che è una donna.