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Una città che tutti ci contiene

Recensione di “Trilogia della città di K.” di Agota Kristof

 
Agota Kristof, Trilogia della città di K., Einaudi
Agota Kristof, Trilogia della città di K., Einaudi

Un romanzo che è diario, e confessione, e invenzione. Un romanzo che svela se stesso attraverso una scrittura potente e misteriosamente trattenuta, generosa e timida, che si fa rifugio e si sforza di offrire protezione non tanto dal dolore (inevitabile per ognuno di noi) ma da ciò che lo rende insopportabile; il suo irrompere improvviso e la sua incomprensibilità.


E ancora un romanzo che non somiglia a nessun altro, sospeso nel tempo e nello spazio, ricamato intorno a una geografia inventata eppure reale nello stesso modo in cui lo sono le cose, dunque vero, autentico, per i sensi come per il cuore. E infine un romanzo ferito, violentato e reso eterno da una prosa spogliata di tutto e nonostante ciò di una precisione assoluta; una prosa, come scrive con grande acutezza Giorgio Manganelli, “di perfetta, innaturale secchezza […] che ha l’andatura di una marionetta omicida”. Favola nera, lucido delirio, sfuggente flusso di coscienza, girotondo d’incubo di un pensiero ossessivo, storia lugubre, oscura e a tratti disarticolata nella quale può accadere (e di fatto accade) tutto e il contrario di tutto, la Trilogia della città di K. di Agota Kristof è un’opera di trasparente disperazione mascherata da enigma letterario.

Tra le sue pagine compare l’orrore della guerra – una guerra qualunque, perché in fondo, nella loro assurdità, nella loro volontà di annichilimento, i conflitti si somigliano tutti, anche se nella foschia di questa voluta indistinzione è facile riconoscere la seconda guerra mondiale e i suoi tragici protagonisti: i nazisti e il loro folle disegno di sterminio, e i “liberatori” sovietici, tiranni uguali e contrari agli occupanti appena sconfitti – la quotidiana realtà dell’odio, l’amore e la compassione estirpate dalla miseria, dal bisogno, e più di tutto la necessità di rinunciare a quel che si è in cambio della vita, un dono che non ha nulla di miracoloso né di misericordioso e somiglia invece a un patto con il demonio, riscosso, con perfidia, poco alla volta, giorno dopo giorno.

Avventura insieme letteraria e metaletteraria (l’intera narrazione ruota attorno alla scrittura, al suo senso, al suo fine e all’interpretazione che di essa danno i protagonisti del romanzo, i gemelli Claus e Lucas), la Trilogia della città di K., che si compone di tre racconti  lunghi intitolati Il grande quaderno, La prova e La terza menzogna, unisce in un unico quadro, che ha le tinte forti di un incubo e l’incisiva precisione di un ritratto, memoria, fantasia e rimorso. Il procedere controllato ma nervoso della storia somiglia a un torrenziale rovesciarsi di luce in una stanza buia; ogni cosa, per un istante, si rivela, poi torna in qualche misura a nascondersi, in attesa che l’occhio dello spettatore (dunque del lettore), abituatosi al cambiamento, si accorga di quel che ha sempre avuto davanti a sé ma non ha mai davvero guardato. Nel profondo, morboso intrecciarsi di un passato vissuto e sognato e di un presente patito e immaginato, la prosa apparentemente quieta di Agota Kristof trova il modo di impressionare, poi di sorprendere e in ultimo di sconvolgere.

La felicità, che l’autrice ungherese sa disegnare con così commovente delicatezza, quasi si trattasse di qualcosa che è possibile cogliere, proprio come ci si china a cogliere un fiore e ci si sazia del suo splendore, ci lascia orfani nel momento in cui si spezza irrimediabilmente, come se a perderla, una volta per sempre, fossimo noi e non le sue creature. Ed è proprio nel momento in cui la circolarità di quel che viene narrato si compie, quando ogni cosa torna al suo posto, tutto si fa chiaro e la memoria, la fantasia e il rimorso riprendono a essere elementi distinti, ben riconoscibili tra loro, che la sofferenza esplode e i nostri occhi, che proprio come gli occhi dei personaggi della scrittrice ungherese hanno visto troppo e sopportato più di quanto si possa umanamente sopportare, si colmano di lacrime e si chiudono, esausti, sulle ultime parole di un libro impossibile da dimenticare.

Eccovi l’incipit del romanzo. Le traduzioni dei tre racconti, nell’ordine in cui sono stati citati (che è anche quello di lettura) sono di Armando Marchi, Virginia Ripa di Meana e Giovanni Bogliolo (su licenza di Ugo Guanda Editore) per Einaudi Editore. Buona lettura.

Arriviamo dalla Grande Città. Abbiamo viaggiato tutta la notte. Nostra Madre ha gli occhi arrossati. Porta una grossa scatola di cartone, e noi due una piccola valigia a testa con i nostri vestiti, più il grosso dizionario di nostro Padre, che ci passiamo quando abbiamo le braccia stanche. Camminiamo a lungo. La casa di Nonna è lontana dalla stazione, all’altro capo della Piccola Città. Qui non ci sono tram, né autobus, né macchine. Circolano solo alcuni camion militari. I passanti sono pochi, la città è silenziosa. Si può udire il rumore dei nostri passi; camminiamo senza parlare, nostra Madre tra noi due.

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