Recensione di “38 racconti” di Erskine Caldwell
Non è facile raccontare con leggerezza il sud degli Stati Uniti al principio del Novecento. Sorridere rispettosamente (con quella teatrale condiscendenza che solo l’esatta conoscenza delle cose può regalare) delle dure condizioni di vita di uomini e donne; di quel sapere contadino, impasto di ignoranza ed esperienza vecchio di centinaia d’anni che è insieme eredità e fardello di generazioni perdute, scomparse persino dalla memoria dei vivi; di comunità ignare del trascorrere del tempo, legate a un’etica sociale rude e miope, che premia tenacia, fatica, volontà e forza fisica e si disinteressa di tutto il resto; della ferita aperta del razzismo, divenuta abito tanto per i bianchi oppressori quanto per i neri vittime, e di ogni altra ingiustizia che ne discende; di qualsiasi peccato infanghi quella terra.
Non è facile essere lievi di fronte al dolore; riconoscerne la dignità, l’importanza (quella reale al pari dell’artistica) eppure ostinarsi a guardare al di là di esso, accettandolo per ciò che è senza tuttavia arrendersi alla considerazione, al pensiero, alla convinzione (spesso talmente evidente da apparire incontrovertibile) che sia tutto ciò che è. Tra coloro che si sono dedicati con successo a questo compito, tanto arduo quanto affascinante, figura lo scrittore e giornalista americano Erskine Caldwell, voce autentica e brillantemente ingenua di un angolo d’America ordinario, anonimo e povero; limpida eco di un microcosmo sospeso tra colpa e imperfetta innocenza. Nei suoi 38 racconti Caldwell sfoggia un talento letterario che non è azzardato definire “timido” e che si traduce in una meditata semplicità espressiva sorretta da un linguaggio corretto ma del tutto esente da responsabilità, fluido e nello stesso tempo comune. Egli scommette tanto sulle proprie qualità di narratore quanto sulla dignità di quel che descrive e così facendo riesce sia ad esaltare la scrittura sia a farne una deliziosa caricatura. Cittadino e testimone di un mondo piccolo e grigio dove è opinione comune che la vita sia “così monotona e noiosa che non vale lo sforzo di viverla”, Erskine Caldwell da una parte mostra l’infondatezza di questa tesi (anzi di questa diceria, divenuta verità per colpa di “scrittori di articoli, di riviste e conferenzieri” che hanno fuorviato il pubblico per talmente tanto tempo da trasformarla in una “superstizione, di quelle che si portano con sé dalla nascita”) e dall’altra sembra darle credito, sforzandosi di raccontare le sue “storie da nulla” come farebbero degli amici chiacchierando tra loro dell’ultima novità accaduta in paese. Il risultato di questo suo finissimo lavoro artistico è un libro prezioso, una raccolta di quadri di vita scritti con entusiastica vitalità, partecipi, sognanti e crudi; in molti casi Caldwell narra per sottrazione, limitandosi a dare al lettore le coordinate di una vicenda, a tratteggiarne i protagonisti, per poi lasciare il resto alla sensibilità, all’immaginazione, al cuore (è il caso dello straziante La bambina della mamma, che tratta di un aborto clandestino, del dolcissimo La stagione delle fragole, delicata storia d’amore la cui composizione l’autore così giustifica: “A me piace questo racconto. È vero che non risolve problemi e non attinge sublimità filosofiche; e certo non potrebbe passare come esempio di una novella-modello. Ma dopo tutto quello che ne è stato detto, a me piace ancora”, e dello splendido Il primo autunno, che si misura con la morte e con il suo improvviso apparire, tragedia che l’autore per primo confessa di non riuscire a spiegare), altre volte invece egli lascia respiro alla prosa, quasi si accorgesse di non poter tracciare confini a ciò che ha da dire, quasi fosse, nei confronti della storia raccontata, nient’altro che l’estensore (come ne La ragazza meticcia e ancor più in In ginocchio davanti al sole nascente, il racconto più lungo, nonché il più spietato, della raccolta; non a caso entrambi centrati sulle questioni razziali).
Raffinato esercizio stilistico mascherato da innocuo divertissement; ragionato e intrigante puzzle letterario che pezzo dopo pezzo ricostruisce fin nei dettagli una stagione (dell’individuo e della società) che pur appartenendo irrimediabilmente al passato non è ancora scomparsa (e forse non scomparirà mai), il volume che contiene i 38 racconti di Erskine Caldwell è una lettura sorprendente. Imprevedibile come un temporale estivo, sottile e incisiva, ha lo stesso misterioso potere che hanno i gesti d’amore, quello di lasciarci addosso un’ombra di felicità.
Eccovi l’inizio di Candy-Man Beechum, che Caldwell presenta con queste parole: “Preferirei scrivere un altro racconto come questo che un romanzo di trecento pagine”. La traduzione, per Mondadori, è di Augusta Mattioli. Buona lettura.
Dieci miglia delle paludi di Ogeecheee si stendevano dalla segheria alla cima dell’altura, ma era solo una bella passeggiata per Candy-Man. Era uno spettacolo degno di essere visto guardarlo percorrere quella piccola valle della Georgia centrale! «Dove vai, Candy-Man?». «Fa’ largo a questi miei piedi che volano, perché vado a trovare la mia ragazza. A quest’ora lei è già ritta sulle punte dei piedi ad aspettarmi». I conigli correvano a rifugiarsi nei tronchi cavi degli alberi, dove quelle grosse scarpe non li potevano raggiungere.
Lo sto leggendo anch’io, questo libro in edizione Mondadori Medusa, e devo dire che i commenti dell’autore ad ogni racconto sono adorabili.
Hai ragione. Buona lettura!