Recensione di “Alessandro o il falso profeta” di Luciano di Samosata
“Di figura era alto, avvenente e davvero splendido come un dio: di carnagione chiara, il mento coperto da una barba non troppo folta, con una chioma in parte naturale, in parte posticcia, ma resa assolutamente simile alla sua capigliatura, tanto che ai più sfuggiva che non erano capelli suoi. Dallo sguardo fascinatore emanava un bagliore divino; aveva una voce molto suadente e allo stesso tempo assai sonora; insomma, fisicamente era del tutto irreprensibile”.
Protagonista di questo ritratto dettagliato e perfido, nel quale una bellezza quasi divina si accompagna al più dozzinale dei trucchi (una sorta di parrucca ben dissimulata), è lo spregiudicato avventuriero Alessandro, originario dell’anonima cittadina di Abonutico, in Paflagonia, sulla costa settentrionale dell’Asia Minore; un uomo come tanti, anzi un impostore, un ciarlatano, un “falso profeta” che nella seconda metà del II secolo dopo Cristo grazie alla sua arte oratoria, al suo pratico ingegno e alla sua smodata ambizione riuscì a fondare un vero e proprio culto dedicato alla sua persona, una religione che non soltanto lo trasformò, in vita, in un idolo (e in un’involontaria caricatura degli dei del Pantheon pagano, ormai giunti alla fine del loro glorioso cammino), ma addirittura gli sopravvisse per lungo tempo.
A scriverne le gesta, e a denunciarne le manipolazioni, in un puntuto riassunto di vita che è prima di tutto un magistrale esempio di opera satirica (oltre che un virulento j’accuse), è lo scrittore e retore greco di origine siriana Luciano di Samosata. Tra i più illustri esponenti della corrente filosofico-letteraria conosciuta con il nome di Seconda Sofistica, Luciano, in questo suo agile scritto intitolato Alessandro o il falso profeta, utilizza come un’arma l’architettura narrativa della biografia; nelle sue mani, infatti, la vita di Alessandro, oggetto di una vera e propria inchiesta giornalistica ante litteram, condotta con sincera aspirazione alla verità ma non con specchiata imparzialità (Luciano avversa Alessandro, e non fa nulla per nasconderlo; anzi, dopo aver dichiarato le sue intenzioni polemiche nel titolo dell’opera, le riprende nella primissima pagina del libro apostrofando Alessandro con il titolo di impostore e spiegando che scriverne le gesta, lungi dall’essere impresa vana, è in realtà compito importante e impegnativo quanto lo sarebbe scrivere della vita e delle imprese di Alessandro Magno, figlio di Filippo il Macedone, poiché il “falso profeta” è stato grande nel male quanto il magnifico condottiero lo è stato nel valore), diviene un impressionante, pirotecnico spettacolo di malefatte.
Ma al di là di queste sbandierate intenzioni Luciano è autore troppo raffinato ed elegante per abbandonarsi, o meglio per arrendersi al linguaggio rude e scomposto dell’invettiva. Egli odia apertamente, e denuncia con veemente voluttà, ma non rinuncia mai alla squisitezza estetica del bel periodo, al piacere offerto dalla musicalità di una frase, insomma a tutto ciò che la sensibilità del lettore colto coglie un attimo prima di appropriarsi del significato letterale delle parole. Anche nei passaggi più violenti, dunque, quando ad Alessandro l’autore attribuisce le peggiori turpitudini (la prostituzione in giovanissima età, sfruttata al massimo per ottenere denaro, favori, amicizie, qualsiasi cosa potesse favorire la sua ascesa sociale; l’intelligenza, notevole ma asservita agli scopi più biechi; la passione carnale per i fanciulli nascosta dietro un’irreprensibilità di facciata tanto intransigente quanto falsa; la menzogna propalata senza freno, la manipolazione sfacciata dei più deboli, dei più creduloni, dei più impressionabili), non viene meno la bellezza dell’insieme, né perde consistenza la vis comica di Luciano. Si ride, infatti, leggendo Alessandro o il falso profeta; e la risata, per quanto amara e disillusa, resta piena, corposa, rotonda, preservata dallo stile e dal ritmo felicissimo della prosa: “Ormai la gente accorreva sempre più numerosa, come a fitte ondate; e la città, schiacciata dalla moltitudine dei pellegrini che giungevano al santuario per ascoltare l’oracolo, non disponeva del necessario. Alessandro inventò allora gli oracoli cosiddetti «notturni». Prendeva i rotoli e vi dormiva sopra – almeno così diceva -, poi rispondeva come se avesse ascoltato in sogno i responsi del dio: in realtà, questi non erano affatto chiari, bensì ambigui e confusi, soprattutto se gli accadeva di notare che il rotolo era stato sigillato con particolare cura. Per non correre rischi, infatti, scriveva ciò che gli veniva in mente del tutto a caso, poiché riteneva che anche tale particolarità si confacesse a un linguaggio oracolare”.
Classica nella sua perfezione formale e di sorprendente modernità nel tema (e nella sua esposizione), Alessandro o il falso profeta è un’opera allo stesso tempo leggera e potente, che racconta di un’epoca e di ogni tempo, di un singolo uomo e di tante, tantissime persone come lui, talmente simili ad Alessandro da sembrarne avi, o reincarnazioni.
Tu forse, mio carissimo Celso, reputi insignificante e lieve il compito che mi hai imposto: di scrivere un libro sulla vita di Alessandro, l’impostore di Abonutico – le sue trovate ingegnose, gli atti temerari da lui compiuti, i suoi trucchi – e poi di mandartelo. A ben vedere, però, se si volessero esporre in dettaglio le sue imprese una per una, ciò non sarebbe meno impegnativo che comporre un’opera sulle gesta di Alessandro, figlio di Filippo. Tanto grande è stato infatti costui nel male quanto Alessandro Magno nel valore.