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XVII secolo: nel Vietnam del Mandarino Tan

Recensione di “L’ala di bronzo” di Tran-Nhut

 
Tran-Nhut, L'ala di bronzo, Tea
Tran-Nhut, L’ala di bronzo, Tea

Una scrittura leggera e preziosa, attenta ai dettagli e tuttavia incline alla meraviglia, attratta dal fiabesco, dall’impossibile e dalla suggestione del mito. Un’ambientazione originalissima (il Vietnam del XVII secolo), lontana nel tempo e nello spazio ma restituita ai lettori con divertita grazia e partecipata simpatia. E ancora personaggi disegnati con cura, persino con una sorta di affetto, e ritratti in dettaglio tanto nelle sfumature del carattere quanto nelle peculiarità fisiche. E intorno a ognuno di essi, un fitto mistero popolato di oscuri segreti, la memoria collettiva di un crimine che incombe come una minaccia, o peggio come un rimorso che non dà pace, e una quotidianità posticcia dentro la quale rifugiarsi, come animali braccati.


E’ in questo fascinoso scenario sospeso tra tensione e improvvisi scoppi di ilarità che si svolge la terza indagine del Mandarino Tan, integerrimo uomo di stato e detective infallibile nato dalla fantasia delle sorelle vietnamite Kim e Tranh-Van Tran-Nhut . Dopo il folgorante esordio de La polvere nera di maestro Hu (di cui ho già scritto nel blog) e un secondo romanzo decisamente poco felice (L’ombra del principe), il giovane Tan torna protagonista di un romanzo tumultuoso e coinvolgente (per la prima volta scritto soltanto da Tranh-Van Tran-Nhut), dove i colpi di scena si susseguono e realtà, sogno e leggenda si fondono in un intreccio inestricabile. A far da palcoscenico (e da metafora) alla narrazione, la giungla, lussureggiante, impenetrabile e letale che da ogni parte circonda il villaggio natale di Tan. E’ lì, nel povero agglomerato di capanne che l’ha visto nascere, che Tan, accompagnato dal letterato Dinh, suo fedele amico, si reca per far visita all’anziana madre. Ed è lì, in un Vietnam del Sud stufo di sentirsi provincia e preda (consapevole soltanto in parte) di complotti separatisti e mire espansionistiche, che il Mandarino si trova ad affrontare la più complessa e pericolosa delle sue indagini. Qualcosa che lo coinvolge dal punto di vista personale (con sua madre che invece di riconoscerlo e di riabbracciarlo commossa lo scambia per il marito, scomparso quando Tan era soltanto in bambino), istituzionale (in quella parte del Paese governa un signore della guerra senza scrupoli, i cui piani, per quanto ancora tenuti segreti, Tan ha il dovere di contrastare con ogni mezzo, perché sa che se venissero portati a compimento destabilizzerebbero l’intera architettura dello stato) e non ultimo investigativo, perché poco dopo il loro arrivo al villaggio il Mandarino e Dinh devono far luce su una morte che sembra figlia di un evento soprannaturale ma che in realtà è il frutto, raffinatissimo, di un omicidio pianificato alla perfezione.

Alla ricerca della verità, circondato soltanto da silenzi ostili e falsi indizi costruiti a bella posta per confonderlo e costringerlo ad arrendersi,  Tan è costretto a rivivere traumatici episodi del passato confinati per anni nei più bui recessi della sua anima. In questo viaggio alla riscoperta di se stesso e dei suoi affetti, che l’autrice racconta con accenti semplici eppure vigorosi e ricchi, indugiando con grazia sull’alternarsi dei sentimenti del protagonista (volta a volta commosso, sorpreso, irato, speranzoso, disilluso, determinato, disperato, vendicativo e infine, dopo un lungo travaglio, pacificato) mutevoli come i mille colori della natura trionfante. In un alternarsi continuo di passato e presente, la vicenda, che al principio procede spedita lungo un registro narrativo di eccessi tipico del racconto fantastico, poco alla volta, imbrigliata dalla severa razionalità del Mandarino (pronto a riverire, e persino a temere, ogni sorta di divinità, ma per nulla disposto a permettere che un assassino la faccia franca sfruttando l’imprevedibile suscettibilità dei demoni o la brama di sangue e di piaceri proibiti degli spettri), si chiarisce. Finché, a indagine chiusa, anche  la frattura tra il tempo trascorso (dove ogni cosa ebbene inizio e dove Tan, suo malgrado, dovette dire addio alla propria fanciullezza) e l’attuale viene sanata e una nuova innocenza, fragile ma pura, può tornare ad accarezzare quel lembo di terra.

Romanzo piacevole, furbescamente disimpegnato e addirittura spassoso per larghi tratti, L’ala di bronzo è una scommessa riuscita; un libro, come scrive Marco Vichi, forte del “linguaggio del linguaggio mitico delle fiabe e di quello concreto del noir, che ci accompagna in un mondo indimenticabile, intriso di mitologia e di sangue”.

Eccovi l’incipit. La traduzione, per Tea, è di Francesco Bruno. Buona lettura.

“Che il Demone della Truffa mozzi le mani a quel cane di Tsao e se le porti in giro sulla sua lingua fetida!” esclamò il venditore di liquori Phu, sputando per terra. “Sono sicuro che quello sporco cinese aveva una carta nascosta nella manica di seta”.

“Come avrebbe potuto, sennò, spennarci come ha fatto senza che ce ne accorgessimo?” rincarò il suo compagno, un omino che stringeva furiosamente l’unico sapeco rimastogli dopo la brutta batosta. “C’è da credere che fossimo più attenti ai codrioni d’anatra, che Tsao ci offriva assieme all’alcol di riso, che a quelle maledette carte. Quel farabutto ci ha proprio infinocchiati ben bene!”. Era stato il capoccia Loc a parlare, la voce bassa fremente di collera. Camminava sulla strada bianca di polvere, la faccia imbronciata, accanto ai suoi compagni di sventura. Il volto dai lineamenti duri rispecchiava il suo malcontento mentre squadrava gli amici che non la finivano di lagnarsi. Con i piedi alzavano nuvolette grigiastre, appena visibili in quella notte in cui la luna era ridotta a una falce sottile come le labbra di una pettegola.

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