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Morire, alla fine della settimana di lavoro

Recensione di “I milanesi ammazzano il sabato” di Giorgio Scerbanenco

 
Giorgio Scerbanenco, I milanesi ammazzano al sabato, Garzanti
Giorgio Scerbanenco, I milanesi ammazzano al sabato, Garzanti

“Con la civiltà di massa oggi viene fuori anche la criminalità di massa. Oggi la polizia non può più ricercare un singolo delinquente, indagare su un singolo caso, oggi si fanno dei rastrellamenti con le reti a strascico dei vari nuclei di polizia, nucleo antidroga, nucleo antitratta delle bianche, negre, gialle, nucleo antirapina, antifalsari, antigiocodazzardo, si pesca in questo lutulento mare del crimine e della sozzeria e vengono fuori repellenti pesci piccoli e grossi, e si fa così pulizia.

Ma non c’era tempo di cercare una ragazza alta quasi due metri, del peso di un quintale, minorata di mente, scomparsa da casa, vanificata, in una sterminata Milano dove ogni giorno qualcuno scompare e non si ha la possibilità di ritrovarlo”.

In questo brevissimo e folgorante capitolo iniziale de I milanesi ammazzano al sabato, quarto e ultimo romanzo di Giorgio Scerbanenco con protagonista il medico-poliziotto Duca Lamberti, si respira, più che in tutti gli altri, un’atmosfera dimessa di resa, un dolore sordo, la definitiva spossatezza della sconfitta. Oppressa da un destino di tragedia, la prosa di Scerbanenco graffia le pagine con furia e dipinge con i colori violenti della disperazione la storia qualunque di un padre e di una figlia, di un amore commovente e disarmato che nulla può contro la malvagità del mondo.

Nel chiaroscuro di una città malata (la Milano amata e odiata che, magistralmente tratteggiata, fa da sfondo a tutti i romanzi che compongono questa indimenticabile saga noir), un giorno Amanzio Berzaghi, ex camionista menomato nel fisico e nello spirito da un gravissimo incidente e ridotto a svolgere lavoro d’ufficio in una grande ditta di trasporti, denuncia alla polizia la scomparsa della figlia Donatella, una ragazza bellissima, dal fisico monumentale ma dalla mente fragile.

A ventotto anni, Donatella ragiona come una bambina di dieci, e come una bambina di dieci anni, anzi più piccola ancora, vede la realtà. Non conosce malizia, ignora i pericoli e, quel che è peggio, nutre un’incosciente fiducia verso chiunque; è sufficiente che le si chieda qualcosa, qualsiasi cosa, perché lei dica sì. In quello splendido, scultoreo corpo di donna, la mente innocente di Donatella non conoscerebbe ansie, traumi o inimmaginabili brutalità se non fosse per gli appetiti che proprio quel corpo perfettamente sviluppato le scatena dentro: Donatella, infatti, conosce l’attrazione per gli uomini, assapora su di sé il desiderio e con tutta se stessa vuole soddisfarlo.

“Il dottore dice che è una malattia”, spiega il vecchio Amanzio, la voce che esce a fatica, schiacciata dall’imbarazzo, dalla vergogna. “La mia bambina è una ragazza onesta, ma è malata, è una malattia, quella lì, che guarda tutti gli uomini, sorride, e qualunque cosa le dice un uomo, lei dice di sì”. E Duca, che ascolta attento quell’uomo così dignitoso e sfortunato, quel milanese che ha consacrato tutta la sua vita al lavoro e alla famiglia, che ha promesso a se stesso che lavorerà finché avrà fiato per respirare e forza per restare in piedi perché con i soldi guadagnati potrà continuare a prendersi cura della figlia, che altrimenti verrebbe chiusa in manicomio, sa che le cose stanno esattamente in questo modo.  “Sì, era una malattia. Duca lo sapeva, che aveva molti nomi, generici, come ‘ninfomania’ o tecnici, come estrite, eretismo. Non c’entrava  l’onestà, la morale, l’educazione, l’ambiente. Dall’interno del proprio corpo sorgeva una fiamma perenne di estro sessuale, che non si saziava mai e che conduceva il sofferente ad atti e comportamento socialmente, moralmente scorretto, e anche alla sua rovina, in ogni senso, anche fisico”.

Così, per proteggerla da se stessa e dai suoi ingovernabili appetiti ad Amanzio, vedovo da diverso tempo ormai, non è rimasto altro da fare che nasconderla a tutti, chiudendola in casa nelle ore in cui lui è assente per lavoro. Stabilita, grazie alla disponibilità dei suoi datori di lavoro, una routine che gli consente di tornare a casa per pochi minuti due volte al giorno, l’uomo si dedica interamente alla figlia, che ama di un amore tenero e incondizionato, e pur tra mille difficoltà riesce ad assaporare, assieme alla sua bambina, scampoli di serenità.

Finché, un giorno, quel piccolo miracolo di sacrificio e  dedizione non viene travolto, schiacciato, dalla scomparsa di Donatella, e dal sospetto che a rapirla siano stati criminali decisi a sfruttare la sua ninfomania per fare soldi. Un piccolo, sordido racket della prostituzione; è questa la pista che decide di seguire Duca Lamberti. Un’intuizione giusta, che viene confermata nel peggiore dei modi, con il ritrovamento del cadavere straziato di Donatella. Chi l’ha uccisa l’ha fatto in preda alla rabbia, all’esasperazione; forse non è stato capace di tenere a bada la ragazza, di comprendere i suoi bisogni di bimba che emergevano tra un amplesso e l’altro, di tacitare le sue paure, e per farla stare finalmente zitta, per liberarsi una volta per tutte di lei, ha scelto la via più semplice, quella definitiva e spietata dell’assassinio. Ma la morte, specialmente quella di una ragazza innocente, porta con sé un’eredità di vendetta, quella lucida e fredda di Duca Lamberti, che intende punire come meritano i responsabili di quello scempio, e quella occasionale ma inarrestabile del mite Amanzio, che solo per un gioco del caso (una lettera anonima) viene a conoscenza dell’identità dei colpevoli, arriva da loro prima della polizia e li uccide.

Giustiziere dilettante e dimesso, Amanzio ammazza per reazione, quasi senza volere; lo fa cosciente di commettere un grave errore, vittima, ancora una volta, di circostanze avverse, della sfortuna, persino di uno sfrontato calendario, che rappresenta l’ultima e più crudele beffa della sua vita: “Se quella lettera me la mettevano sotto la porta il martedì sera, per esempio, io il mercoledì dovevo andare a lavorare alla Gondrand perché era giorno feriale e sarei andato a lavorare, perché io a bottega, se non sono morto, ci vado sempre […]. Se non fosse stato sabato non l’avrei fatto, tutto questo disastro […]”. Parole semplici e terribili, spalancate su un incolmabile abisso di solitudine, cui Scerbanenco fa eco con gelido disincanto: “Un vecchio milanese lavora sempre, ogni giorno, durante tutta la settimana, anche se corta. Se commette qualche cosa che non va, la commette al sabato”.

Romanzo d’ombra, cupo e fosco, I milanesi ammazzano al sabato è un giallo palpitante e sussurrato; è intenso nel ritmo e tuttavia scorre sottopelle, in una specie di oscurità, di clandestinità narrativa, prigioniero di una scrittura trattenuta, castigata, quasi che l’abiezione raccontata non meritasse la dignità dell’espressione. Leggetelo, ma non prima di aver scoperto e conosciuto Duca Lamberti gustandovi gli altri romanzi: Venere privata, Traditori di tutti e I ragazzi del massacro, tutti presenti nel blog.

Eccovi, invece dell’incipit, il racconto dell’incidente occorso ad Amanzio. Buona lettura.
 
Poi l’aveva avuto, invece. Alla periferia di Brema, sull’enorme autotreno che veniva chiamato appunto Milano-Brema perché faceva quella linea. Usciti dall’autostrada, nella notte piovigginosa, sul fondo scivoloso dello stradone il Milano-Brema andava a neppure quaranta all’ora, lampeggiando a ogni incrocio, e anche a ogni sospetto od ombra, ma una stupidissima, ridicolissima, folleggiante Volkswagen con dentro un’intera famiglia, padre al volante, madre, due bambini e anche la suocera, uscì d’improvviso da un incrocio tenuto da un semaforo, passando col rosso, e Amanzio Berzaghi che attraversava tranquillo col verde, la vide e non poté fare altro che frenare disperatissimamente, ma non servì a molto: il Milano-Brema schiacciò la Volkswagen e la famiglia che conteneva, come un frantoio di pietra schiaccia le molli olive, e per la frenata il Milano-Brema slittò sul terreno viscido, si mise per traverso la strada, un motociclista che arrivava sparato in quel momento, vi andò contro e si ammazzò, e Amanzio Berzaghi batté col ginocchio contro l’intelaiatura del gigantesco cruscotto, i tendini, la rotula, fasci di muscoli e l’osso si ruppero, come quando si spezza un ramo, ma egli dall’abitacolo aveva visto quel mare di sangue fluire da quello schiaccio di Volkswagen che fuoriusciva dalle mastodontiche ruote dell’autotreno, sangue flottante ancora e illuminato dai fari di un’auto e poi di altre auto, arrivate in quel momento e reso fluente, cinematografico sangue per il fluire sempre più rabbioso della pioggia, e alla vista di quel sangue, più che per il dolore al ginocchio spezzato, nel pianto rauco del suo secondo pilota che ululava: ‘Mamma mia, li abbiamo ammazzati tutti’, svenne, e per farlo rinvenire gli avevano dato un bicchierone di Kirsch e continuavano a dargliene anche sull’autoambulanza che lo portava all’ospedale, così lui, che mai prima aveva bevuto alcoolici così forti, accontentandosi di un po’ di vino ai pasti, da quella volta, ogni volta che gli tornava in mente la strage, ogni volta che si sentiva infelice, angosciato, beveva una grappa.

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