Recensione di “O Lost” di Thomas Clayton Wolfe
“Questo libro, nella mia stima, è lungo tra le 250.000 e le 380.000 parole […]. Ma credo non sia corretto dare per scontato che un libro molto lungo sia un libro troppo lungo […]. Non ho mai chiamato questo libro romanzo. Per me è un libro uguale a quello che ogni uomo può avere in sé. È un libro fatto della mia vita e rappresenta la mia visione dell’esistenza fino al ventesimo anno di età”. A leggere questo biglietto, che accompagna un’opera torrenziale, titanica nell’elaborazione come nel risultato finale, convulsa, generosa, colorata e confusa come un sogno, elettrizzante e geniale, è Maxwell Perkins, editor della blasonata e prestigiosa Scribner’s Sons.
Davanti a sé, Perkins ha centinaia di fogli che raccolgono una minuziosa geografia dell’America e dipanano, attraverso un lunghissimo arco temporale (che si apre nel 1863, alla vigilia della battaglia di Gettysburg, che decise le sorti della Guerra di Secessione, per chiudersi intorno al 1920), la storia di una famiglia e, nel succedersi delle generazioni, la tragica dissoluzione di ogni speranza. L’autore del libro, Thomas Clayton Wolfe, ottavo e ultimo figlio di un scalpellino e di una donna ossessionata dall’accumulo di denaro (al punto da trascurare qualsiasi altra cosa, e in primo luogo la famiglia), è un giovane fisicamente imponente, dal carattere complesso, labirintico, eccessivo e incontrollabile tanto nella timidezza quanto nell’ira, molto dotato per la drammaturgia e le lettere. Allevato nel più completo disordine morale e materiale, Wolfe cresce guidato soltanto dall’impulso, da qualche fortunoso mentore incontrato per caso (insegnanti il più delle volte) e dalla propria fiammeggiante immaginazione. Legge con avidità poeti, drammaturghi e romanzieri, in massima parte di lingua inglese (Shakespeare, Dickens, Scott, Wordsworth, Longfellow, John Donne, Coleridge e tanti altri), vive folli, trascinanti ed esclusive passioni letterarie, si dedica a un febbrile, onnivoro studio dei classici, ma il suo percorso, seppur straordinariamente fecondo, manca di metodo, di razionalità, e si traduce in una scrittura nervosa, segnata da un delirio di onnipotenza commovente e tragico, da una brama insaziabile e senza requie, che sembra voler infondere vita alle parole, trasformarle, mutarle d’essenza.
Creatore e creatura insieme, solitario e irraggiungibile demiurgo capace di fare dei propri anni la materia di una prosa incessante e infinita, di legare, grazie a un’astrusa ma felicissima chimica letteraria, il presente al passato e al futuro, di gettarsi a capofitto nella storia mescolando senza distinzione realtà e fantasia, e nello stesso tempo di viaggiare a velocità vertiginosa nel tempo che verrà profetizzando miserie e apocalissi con l’ispirata, barocca visionarietà di un oracolo, Wolfe, nelle circa ottocento pagine che compongono O Lost – il suo libro più ambizioso, drasticamente ridotto, proprio da Perkins, in occasione della prima, fortunata pubblicazione del 1929, e presentato al pubblico con il nuovo titolo di Look Homeward, Angel – racconta della sua famiglia e della sua città natale con accenti vigorosi, sanguigni, con stile vibrante e famelico, rincorrendo sia la verità dei fatti sia quella, fatalmente antitetica alla prima, del suo cuore e della sua anima. La sua confessione-fiume profuma di un’ingenuità soltanto in parte sincera nel camuffamento letterario di luoghi e persone (la natia Asheville che nel romanzo diviene Altamont, la famiglia Wolfe, che qui prende nome Gaunt, poi americanizzato in Gant, il contraddittorio eroe del romanzo, che invece di Thomas riceve il benaugurante nome di Eugene, anche se, si affretta a sottolineare l’autore, “ben nato non comporta come conseguenza certa il ben vissuto”); Thomas Wolfe-Eugene Gant è al centro della scena dalla prima all’ultima pagina del romanzo, lo è perfino prima di nascere, e lo è per esplicita volontà dello scrittore americano. Egli incombe sulla sua opera come un Dio avido e terribile; geloso di ogni parola, strappata da sé come un lembo di carne, Wolfe la rivendica, la contende al lettore e nel farlo lo trascina nel gorgo ipnotico di una prosa magniloquente, torrida, allucinata e soffocante, spalancando davanti al suo sguardo incredulo l’abisso di un inferno personale dove si parlano tutte le lingue del mondo, dove ogni anima è irrimediabilmente perduta perché identico è l’atto del nascere e quello del naufragare.
Ristampato in edizione originale nel 2000 negli Stati Uniti, e poi in Italia per i tipi della Elliot Edizioni (una menzione d’onore va al colossale lavoro di traduzione fatto da Maria Baiocchi e Anna Tagliavini) O Lost è un romanzo stupefacente. Una lettura che non somiglia a nessun’altra, un giro su una giostra impazzita che sconvolge, esalta e sfinisce. La scrittura di Wolfe è un magnifico deserto da attraversare; non azzardatevi a cominciare l’impresa se non siete più che sicuri di volerla portare a termine.
Eccovi l’incipit. Prima di augurarvi, come faccio sempre, una buona lettura, vi auguro buone vacanze. Mi concederò anche io qualche giorno di relax. Spero che continuerete a seguire “Il Consigliere Letterario”, ci rivedremo tra un paio di settimane.
… un sasso, una foglia, una porta nascosta; di un sasso, una foglia, una porta. E di tutti i volti dimenticati. Nudi e soli siamo venuti in esilio. Nel suo oscuro grembo non conoscemmo il volto di nostra madre. Dalla prigione della sua carne siamo giunti all’indescrivibile, indicibile prigione di questa terra. Chi di noi ha conosciuto il fratello? Chi ha guardato nel cuore del padre? Chi non è rimasto per sempre prigioniero? Chi non è per sempre solo e straniero? O immane desolazione, persi nei torridi labirinti, tra le stelle lucenti su questo tizzone esausto e spento, persi!