Recensione di “Il grande Gatsby” di Francis Scott Fitzgerald
Chi è davvero Jay Gatsby? Un impostore? Un contrabbandiere privo di scrupoli? Oppure un affascinante giovane di successo che abita in una casa da sogno nei pressi di Long Island e organizza feste splendide cui partecipa tutto il bel mondo newyorkese? Chi è veramente quest’uomo enigmatico, che sembra aver fatto ogni genere di esperienza e nonostante ciò trascorre la propria vita in una trasognata ingenuità fanciullesca, attratto, come da un canto di sirena, esclusivamente dall’irrealizzabile?
Quali che siano le sue origini, o il segreto della sua immensa ricchezza (accidenti che poco o punto hanno a che fare con un’esistenza battezzata nel desiderio, tiranneggiata dall’emozione e segnata dalla sconfitta), Jay Gatsby, l’indimenticabile antieroe protagonista de Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald, più che il ritratto di una generazione perduta è il simbolo di un naufragio universale, l’incarnazione tragicamente perfetta della fragilità inguaribile della natura umana, della sua consapevole rinuncia all’innocenza. Nel raccontare il sogno incorruttibile ma spento, vizzo, di uomo che ha consacrato ogni istante della vita al riscatto di sé e all’amore per una fanciulla bellissima e “sbadata” (termine che nella prosa aerea e in pari tempo vigorosa dell’autore americano ha il carattere di un j’accuse lucidissimo e brutale: “Erano gente sbadata […]”, scrive a proposito della donna amata da Gatsby e del marito, ma il lettore comprende bene quanto questo impietoso disegno di carattere stringa a sé, in un abbraccio disperato, generazioni intere, “sfracellavano cose e persone e poi si ritiravano nel loro denaro o nella loro ampia sbadataggine o in ciò che comunque li teneva uniti, e lasciavano che altri mettessero a posto il pasticcio che avevano fatto…”), Fitzgerald ci introduce, come fosse il più esperto e raffinato degli anfitrioni, in un’età dell’oro opulenta, grassa, scintillante di meraviglie ma effimera, evanescente; un teatro di posa dove ciascuno è chiamato a recitare la propria parte, dove la finzione è l’unica verità a disposizione e l’egoistica soddisfazione delle proprie necessità il solo comportamento socialmente approvato. In questo mondo alla rovescia che si specchia vanesio in se stesso e si consuma in una corruzione febbrile e insensata senza neppure accorgersi della propria decadenza si ritrova d’improvviso Nick Carraway, voce narrante del romanzo, onesto rampollo di un’agiata famiglia del Middle West. Giunto a New York dopo la laurea per lavorare in Borsa, Nick, cugino alla lontana dell’ereditiera Daisy Fay – la ragazza che Gatsby conobbe prima di partire per la Grande Guerra, di cui si innamorò, alla quale si promise (proprio come lei si promise a lui) ma che non riuscì a raggiungere a conflitto terminato e ritrovò moglie dell’arrogante milionario Tom Buchanan – va a vivere in un modesto villino proprio accanto alla magnifica residenza di Gatsby. Dal suo privilegiato punto d’osservazione, egli assiste con stupore ai continui ricevimenti dati dal suo enigmatico vicino di casa, che tutti conoscono ma che nessuno, o quasi, pare aver mai visto e su cui si raccontano ogni sorta di leggende, finché non riceve un invito ufficiale.
Comincia così, con l’imbarazzata partecipazione di Carraway a un party di cui non ha mai neppure sospettato l’uguale, l’amicizia tra lui e Gatsby; un rapporto singolare, fatto di confessioni e menzogne, di repulsione e affetto (Gatsby incarna tutto ciò che Carraway avversa, a partire dall’incredibile ricchezza dell’uomo, esibita con studiata trascuratezza, con una noncuranza irresponsabile e fastidiosa), di continui avvicinamenti e allontanamenti, di un vorticare di opposte passioni che testimonia lo smarrimento del giovane Nick, lo spaesamento della sua sincerità semplice e cristallina, virtù a dir poco inopportuna in quel contesto. A Nick, avvicinato proprio perché parente di Daisy, Gatsby racconta il suo amore infelice e la sua ferma volontà di ingannare il tempo, di tornare al passato, a quel momento, vissuto cinque anni prima, nel quale i due amanti si erano giurati fedeltà, per ricominciare. Come se niente fosse accaduto da allora, come se il matrimonio di Daisy, proprio come l’immensa fortuna di Gatsby, non fossero che cose di nessuna importanza. E a quel giovane, che, conquistato dall’assolutezza di quell’amore impossibile, si sente in dovere di ammonire Gatsby, di provare a salvarlo da quel suo folle desiderio e dalle conseguenze che potrebbe scatenare – “Non si può ripetere il passato”, afferma con calore – quest’ultimo replica con sprezzante sicurezza: “Non si può ripetere il passato? Certo che si può”. Ma l’amore, anche il più puro, anche il più innocente, in quell’ambiente saturo di egocentrismo e finzione non è che una pallida eco di sé: così Gatsby, nella sua pretesa di riavere per sé Daisy, insinua il germe del tradimento nel matrimonio tra lei e Tom, e Tom, che non si è mai fatto scrupolo di avere amanti (nel romanzo seduce la moglie di un meccanico, che sarà l’involontario strumento della definitiva rovina di Gatsby), di colpo si ritrova a patire sofferenze che fino a quel momento ha spensieratamente inflitto. E colpito, reagisce nel solo modo che conosce, con perfida vigliaccheria. Così nessuno, in questo circolo esclusivo di colpevoli e peccatori, se la cava senza danno, anche se a pagare il prezzo più alto è Gatsby, più debole dei suoi avversari perché, almeno in parte, sincero, autentico.
Il grande Gatsby è un romanzo magico e terribile, difficile da dimenticare. Nelle poche pagine che lo compongono Fitzgerald riesce a rappresentare, nel tramonto di una singola vita, il declino della vita di ciascuno e di tutti. La sua scrittura acuta e riflessiva, sussurrata, pudica e nonostante ciò straordinariamente incisiva, è una preziosa, splendida eredità letteraria e umana.
Negli anni più vulnerabili della mia giovinezza, mio padre mi diede un consiglio che non mi è mai più uscito di mente. – Quando ti vien voglia di criticare qualcuno – mi disse, – ricordati che non tutti a questo mondo hanno avuto i vantaggi che hai avuto tu. Non disse altro, ma eravamo sempre stati insolitamente comunicativi nonostante il nostro riserbo, e capii che voleva dire molto più di questo.