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Nel cupo, selvaggio splendore d’Islanda

Recensione di “Un caso archiviato” di Arnaldur Indridason

 
recensione - Arnaldur Indrioason, Un caso archiviato, Guanda
 Arnaldur Indridason, Un caso archiviato, Guanda

 

Erlendur Sveinsson è un solitario. Un detective della polizia di Reykjavik taciturno, ostinato, efficiente. E ombroso, tetro e inquieto come la bellezza selvaggia, primitiva e incomprensibile della sua terra. Come ognuno di noi, Sveinsson ha i suoi segreti, che custodisce dentro di sé con gelosia d’amante, convinto che l’unica possibile modalità d’espressione del dolore sia il silenzio.

Padre di due figli ormai grandi (che ama sinceramente pur non essendosene mai occupato), divorziato da una donna che non ha mai amato, e che a ragione gli rinfaccia l’infelicità cui le sue scelte l’hanno condannata, Erlendur non divide che una minima parte della sua vita con una nuova compagna; qualche serata trascorsa assieme, rari confronti segnati da un assoluto rispetto reciproco e da una sincerità così piena da sfiorare la brutalità, semplici attimi di pace, di tregua dal mondo e dal suo disordine incessante.

Il resto è un’ossessione destinata a non conoscere requie per la morte del fratello, sorpreso da una tempesta, e una composta dedizione al lavoro, che il poliziotto affronta con umana professionalità, evitando per quanto possibile di farsi coinvolgere dalle tragedie che si trova ad affrontare senza tuttavia disdegnare di offrire qualcosa in più di un’educata e concreta disponibilità a coloro che si rivolgono a lui. Specialmente quando a farlo sono persone che devono convivere con la misteriosa scomparsa dei propri cari; genitori che non sanno che fine abbiano fatto i propri figli; mogli che da un giorno all’altro perdono i mariti e alle quali non bastano anni per accettare la realtà di quanto accaduto; fratelli, come lui, divorati dal senso di colpa per essere sopravvissuti a coloro che amavano. A questi casi, frequenti in Islanda, Erlendur dedica particolare attenzione, arriva a farli suoi, a viverli (o meglio a riviverli) in prima persona, nella speranza di poter ritrovare i corpi, di poter offrire a chi è rimasto il solo conforto permesso dalla morte; una tomba dinanzi alla quale piangere. Così, quando gli viene assegnata un’indagine di routine sul suicidio di una donna che aveva da poco perduto la madre, malata di tumore, Sveinsson, forse spinto dalla grave malattia del padre di un ragazzo scomparso oltre trent’anni prima (e che da quel momento non ha mai smesso di presentarsi alla stazione di polizia per chiedere se ci fossero novità), o forse attratto dall’interesse per l’aldilà nutrito dalla persona che aveva deciso di togliersi la vita impiccandosi a una trave del soffitto nella sua casa di vacanza, riprende in mano quel vecchio caso. E scopre un intreccio inaspettato tra le due vicende, che gli rivelerà una verità terribile. Meschina, vergognosa, di barbara vigliaccheria, e proprio per questo impossibile da accettare. E da perdonare. Questa l’architettura narrativa di Un caso archiviato, giallo di pregevolissima fattura del giornalista e scrittore islandese Arnaldur Indrioason.

Sorretto da una prosa matura e di grande suggestione, perfetta sia nei ritratti d’ambiente sia nella descrizione dei caratteri ed eccezionalmente coinvolgente nei dialoghi, cui l’autore affida la soluzione del caso e la progressiva messa a fuoco dei diversi personaggi del romanzo (a partire proprio da Erlendur, protagonista di una serie di romanzi che hanno conosciuto un più che lusinghiero successo di pubblico e si sono guadagnati alcuni importanti riconoscimenti letterari, come il Gold Dagger Award, assegnato annualmente dall’Associazione degli Scrittori di Romanzi Gialli, e il Glasnyckeln, premio destinato ai migliori autori di thriller scandinavi), Un caso archiviato è un romanzo intenso, potente, entusiasmante. Lo attraversa un pessimismo irreversibile e profondo che ha il sapore amaro di un destino già scritto e che Indrioason mette sulla pagina con squisito garbo e rara sensibilità, come a scusarsi di non poter venir meno al dovere di raccontare quel che vede: quanto è facile, e seducente, per l’uomo dimenticare se stesso. E trasformarsi nella sua abiezione.

Leggete Un caso archiviato, lasciatevi conquistare da Erlendur Sveinsson e dal raffinato talento narrativo del suo creatore. Uno scrittore, ne sono certo, che vi verrà voglia di scoprire ancora e ancora.

Eccovi lincipit. La traduzione, per Guanda, che ha pubblicato lintera serie di romanzi dedicata al poliziotto di Reykjavik, è di Silvia Cosimini. Buona lettura.

Maria aveva seguito a malapena lo svolgimento del funerale. Era rimasta seduta come inebetita sulla prima panca tenendo la mano di Baldvin, senza rendersi ben conto di dove si trovava o della funzione a cui stava partecipando. L’omelia, i convenuti alle esequie e il canto del piccolo coro della chiesa si confondevano in un unico ritornello doloroso. Il pastore era stato a casa loro e aveva preso qualche appunto, quindi Maria conosceva il contenuto dell’omelia. Aveva parlato più che altro della carriera accademica di sua madre Leonora, del coraggio dimostrato nell’affrontare la terribile malattia, dei molti amici che si era fatta nel corso della vita, e di lei, la sua unica figlia, che in un certo senso aveva seguito le orme della madre.

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