Recensione di “Io sono leggenda” di Richard Matheson
Il giungere della sera calcolato per approssimazione, guardando il cielo; la cura quotidiana di sé affidata a una pianificazione severa fatta di precisi doveri da assolvere; la propria casa trasformata in roccaforte inespugnabile, divenuta teatro di una guerra di resistenza che è memoria di una normalità perduta per sempre. E ovunque, al di là di quelle finestre sbarrate, una sterminata legione di vampiri, l’umanità intera mutata in incubo a causa di un batterio, la nuova genia di un mondo ormai al crepuscolo che stringe d’assedio l’ultimo uomo rimasto sulla terra: il clandestino Robert Neville.
Questo lo scenario di Io sono leggenda, con ogni probabilità il romanzo più noto dello scrittore americano Richard Matheson, potente metafora sociale che alla libera immaginazione creatrice del racconto fantascientifico unisce il ritmo serrato del thriller. L’odissea di Robert Neville, unico sopravvissuto a un’epidemia che ha spazzato via gli esseri umani e consegnato il pianeta ai vampiri, è specchio tanto di ancestrali e in qualche misura indefinibili terrori quanto di paure concrete, presenti (l’opera fu pubblicata nel 1954, a dieci anni dalla fine del secondo conflitto mondiale e in piena guerra fredda), e Matheson, ricorrendo a una prosa essenziale, di scarna ma impeccabile puntualità nelle descrizioni d’ambiente e di eccezionale profondità nel disegno dei caratteri, nella definizione della psicologia dei personaggi, la consegna al lettore in tutta la sua tragica semplicità. Così, l’apocalittico scenario nel quale Neville si costringe a vivere contro tutto e tutti non è che una lontana indistinzione, un orizzonte che si scorge a fatica, messo in secondo piano proprio dai bisogni che suscita (la necessità di nutrirsi, di assicurare la solidità delle proprie difese, di non cedere alla disperazione e alla ferinità dimenticando la musica, i libri, l’obbligo di ignorare l’istinto sessuale, che incendia il corpo e la mente ma che non c’è modo di soddisfare e che proprio per questa ragione diventa ogni giorno più difficile da controllare…), e in parallelo l’utopia negativa del grande autore americano, a prima vista centrata sull’annientamento dell’idea stessa d’uomo, svela la propria architettura radicalmente antropocentrica, nella quale a risaltare in tutta la sua crudezza è la sostanziale fragilità della vita.
Testimone di una dissoluzione inarrestabile, Neville è dapprima un baluardo (il ricordo collettivo di quel che ognuno di noi è stato un tempo), poi soltanto l’ombra di un passato destinato a precipitare nell’oblio, o a vivere, in forma di leggenda, nell’irrealtà della superstizione, del racconto orale. Perché il batterio che ha creato i vampiri ha anche dato vita a uomini nuovi, persone non immuni al contagio ma nelle quali il male si è fermato a un determinato stadio. Saranno questi esseri (non più umani come Neville, ma non del tutto disumani come i vampiri) a vincere la guerra contro i loro fratelli degenerati e a ripopolare la terra, e Neville, che dopo anni di solitudine incontra uno di loro, una donna di nome di Ruth, nel rendersi conto dell’inevitabilità di questo fatto comprende anche quanto la sua lotta non abbia mai riguardato altri che se stesso. Condannato dalla pandemia a una solitudine peggiore della morte, Neville, dopo aver conosciuto Ruth e scoperto la sua natura, finisce per arrendersi al proprio destino, che lo condanna all’insensata immortalità del mito: diverso in una società di nuovi uguali di cui non potrà mai essere parte, l’uomo, che un tempo era la misura di tutto ciò che era giusto accettato, normale, ora è un condannato per il quale non c’è che il sacrificio. Chi per tanto tempo ha resistito al contagio, oggi è il male da cui bisogna guardarsi: ““Ora sono io l’anormale. La normalità è un concetto di maggioranza, la norma di molti, e non la norma di uno solo”. Quel pensiero all’improvviso si fuse con quello che vedeva sulle loro facce: timore, paura orrore; e comprese che avevano paura di lui. Per loro, lui era una terribile calamità che mai avevano veduta, una calamità anche peggiore dell’infezione a cui si erano adattati. Lui era un invisibile spettro che lasciava quale prova della sua esistenza i corpi dissanguati dei loro cari. Capiva quel che provavano e non li odiava”.
Al di là della bellezza della prosa e delle emozioni che scatena, Io sono leggenda merita di essere considerato un piccolo classico. Per la molteplicità di livelli di lettura che consente e per la radicalità di pensiero che l’autore affida alla terribile epopea di Neville, questo romanzo trascende ogni vincolo di genere per imporsi come patrimonio letterario condiviso. Se ancora non l’avete fatto, leggetelo.
Eccovi l’incipit. La traduzione, per Fanucci, è di Simona Fefè.
Nei giorni come quello, in cui il cielo era coperto di nuvole, Robert Neville non era mai sicuro di quanto mancava al tramonto e a volte li trovava già nelle strade, prima di riuscire a rientrare in casa. Se non avesse avuto tanta avversione per la matematica, avrebbe potuto calcolare l’ora approssimativa del loro arrivo; invece, si atteneva ancora all’antica abitudine di regolarsi sul colore del cielo per stabilire la fine del giorno, e, nei pomeriggi senza sole, quel sistema non funzionava. Perciò, quando il cielo era grigio, non osava allontanarsi troppo dalla sua abitazione.
Rieccomi! Ti raccomando ad occhi chiusi un altro romanzo con dei personaggi di straordinaria profondità, quello di cui ho parlato in questo mio post: https://wwayne.wordpress.com/2014/09/08/roma-zona-di-guerra/. : )
Grazie della segnalazione!
Grazie a te per la risposta! : )